Ho seguito tutti gli ultimi discorsi di insediamento dei premier italiani (li cambiamo spesso), ma non avevo mai visto niente del genere fino all’avvento di Gentiloni. Venti minuti di sussurri. Non un fremito, tranne quando all’inizio per l’emozione fa crollare il microfono. Non un applauso, salvo quando cita «il rispetto delle istituzioni». Non una polemica. Una deputata della destra a un tratto alza la voce; ma sta telefonando.
Il neopremier ha detto cose ragionevoli nel disinteresse più assoluto dell’aula semivuota. «L’amicizia con gli Stati Uniti…». I ministri parlano tra loro con la mano davanti alla bocca per nascondere il labiale, come i calciatori quando criticano l’allenatore. «Lo storico legame con la Nato…». I deputati danno mano all’I-pad, sotto gli occhi perplessi di una scolaresca in visita. Per Renzi neppure un applauso, neanche quando il successore ne elogia «la coerenza». Tre anni fa l’uomo di Rignano si insediava al Senato: mani in tasca, discorso a braccio: «Questa è l’ultima volta che i senatori votano la fiducia a un governo». Si sbagliava; ma parlava da leader politico. Il sollievo per esserselo tolto dai piedi è palese, non solo nella sinistra Pd.
Non solo Renzi, anche Berlusconi, Salvini, Grillo non sono parlamentari. Non è in Parlamento che si giocano le sorti d’Italia. Dice Gentiloni che il governo dura fino a quando le Camere non gli tolgono la fiducia: ma questa è un’ovvietà. La legislatura scade nel febbraio 2018. Difficile che il governo possa durare tanto. «Dura come un gatto sull’Aurelia» ha previsto Calderoli con una delle sue delicate metafore. Ma è difficile anche trovare una finestra per andare a votare prima, come vorrebbero Renzi e i grillini. Nel primo semestre del 2017 l’Italia avrà la presidenza del G7, che culminerà nel vertice di Taormina, con la novità Trump. Il G7 è un organo vecchio e screditato, che esclude la Russia, la Cina, l’India, insomma il mondo di domani; ma include l’Italia, quindi resta per un Paese sfiduciato uno dei pochi consessi di prestigio. Difficile affrontarlo in piena campagna elettorale, con un governo provvisorio e grigio. Si potrebbe votare a ottobre; ma non si è mai fatto, c’è la legge di bilancio da scrivere e da far approvare. E poi manca la legge elettorale.
A proposito: chi ha stabilito che la legge elettorale la debbano scrivere i giudici costituzionali? Il Parlamento è sovrano. Se pressoché tutti i partiti si sono espressi a favore del voto anticipato, perché aspettare un mese e mezzo per un’udienza che potrebbe comunque non essere risolutiva?
La Consulta non fa le leggi. La Consulta stabilisce quali norme di una legge violano la Costituzione. È possibile che dalla sentenza esca una legge che possa essere applicata. È possibile che questo non accada. Ma la Consulta si muove entro un ambito ristretto. Il legislatore no.
Approvare una nuova legge elettorale in Parlamento è difficile perché ogni partito ha a cuore il proprio interesse particolare e non quello generale. Non dappertutto è così. Nelle democrazie anglosassoni il sistema elettorale è lo stesso da generazioni. In altri Paesi esiste un tacito patto: non si possono cambiare le regole in base alle convenienze del momento.
L’Italia ha conosciuto la stagione dei collegi uninominali. Poco più di centomila elettori esprimevano il loro parlamentare. In questo modo si sono avute stabilità e alternanza per due intere legislature (quasi un miracolo per l’Italia): dal 1996 al 2001 ha governato il centrosinistra, sia pure con tre premier; dal 2001 al 2006 ha governato il centrodestra, con Berlusconi.
Questa legge porta il nome dell’attuale presidente della Repubblica: il Mattarellum. Un dettaglio non secondario. Sergio Mattarella deve la propria statura anche al fatto di aver dato al Paese norme che non riflettevano l’interesse della propria parte, ma la volontà popolare.
Il sistema maggioritario non nasce dal nulla. Nasce dalla stagione dei referendum. Il 18 aprile 1993 andarono alle urne il 77% degli italiani, più ancora di quelli che stavolta hanno bocciato la riforma costituzionale, per chiudere l’era del proporzionale. Eppure è lì che si rischia di tornare: al proporzionale, con un modesto premio di maggioranza che in questo momento nessuno dei tre poli è in grado di conquistare. Con il retropensiero che alla fine Pd e Forza Italia, Renzi e Berlusconi si metteranno d’accordo per tagliare fuori Grillo. Ma non è questo il modo migliore per far crescere ancora i Cinque Stelle? Qualcuno pensa davvero di potersi chiudere mesi nelle segrete della politica alle prese con alambicchi da cui distillare – ammesso che esista – la legge in grado di tenere i grillini lontano dal governo? E ancora: nei sondaggi il Pd vale il 30% o anche meno; Forza Italia il 10 o poco più; con che coraggio si potrebbe parlare di larghe intese?
Non resta che sperare in un rinsavimento. E al ritorno del Mattarellum. Con gli eletti scelti dagli elettori, non dalle segreterie dei partiti. Ma l’Italia di oggi è un posto in cui si spera pochissimo.