Il tennis come esperienza religiosa è un racconto-reportage che David Foster Wallace (5½) nel 2006 dedicò a Roger Federer, vincitore a Wimbledon contro il giovanissimo Raphael Nadal. In effetti, il tennis tocca qualche volta la perfezione mistica, altre volte si esprime con la geometria fredda del passante di rovescio realizzato da Novak Djokovic (6–) quando Djokovic è al massimo del suo gelo (mentale). Al Pala Alpitour di Torino, con le sue luci blu soffuse da discoteca psichedelica, durante le finali ATP Djokovic ha espresso al meglio il suo gelo e ha sbaragliato tutti. I pronostici indicavano altri vincitori: tra questi il greco Stefanos Tsitsipas, che invece il 18 novembre ha perso contro il russo Andrej Rublev. E ha perso male, come si dice. Tsitsipas sembra un eroe non greco ma nordico, una specie di dio Thor o di Sigfrido, e questo si spiega con il fatto che sua madre è l’ex tennista russa Julia Salnikova (3). La quale, con il marito Apostolos (3), padre e allenatore di Stefanos, non fa che seguire ovunque per tornei internazionali il figlioletto, ormai ventiquattrenne e quarto nella classifica dei migliori tennisti al mondo. Ebbene, nella partita di Torino, i due genitori in mondovisione non smettevano di urlare rimproverando il loro «bambino», alto quasi due metri, ogni volta che sbagliava un servizio, un lob, una smorzata. Finché il cucciolo, esasperato, ha pensato bene di dirigere la racchetta verso il box di mamma e papà nel tentativo (fallito) di colpirne almeno uno con un diritto micidiale (6). Uno spettacolo edificante e penoso, di cui però dovrebbero far tesoro le famiglie fiere e assatanate di tanti potenziali campioncini di tennis, di calcio, di basket, di pallavolo e di qualunque altro sport. Padri e madri che da bordocampo schiumano fierezza per i loro pargoli. I quali dovrebbero tenere a mente il sacrosanto principio espresso dalla scrittrice francese Colette: «Non è una brutta cosa che i bambini debbano occasionalmente, ed educatamente, mettere i genitori al proprio posto» (5+).
Fatto sta che non ci sono solo i genitori iperprotettivi che tolgono il fiato ed esigono il massimo. In una battuta memorabile, Woody Allen faceva dire a un suo personaggio: «Quand’ero piccolo i miei genitori hanno cambiato casa una decina di volte, ma io sono sempre riuscito a trovarli» (6 all’ostinazione). È una frase che avrebbe potuto dire Lietta, figlia di Giorgio Manganelli, il Manga, detto anche il Tapiro, di cui quest’anno si celebra il centenario. Scrittore, giornalista, viaggiatore, funambolo della scrittura, teorico della letteratura come menzogna ed equilibrista della vita come menzogna. Non facile, avere un padre come lui. Lietta lo racconta in una biografia appena uscita, Aspettando che l’inferno cominci a funzionare (La nave di Teseo). Un libro che merita 5 per la sincerità con cui la figlia rievoca il grande falsificatore che fu suo padre: falsificatore autentico e sincero che Lietta non ha mai finito di amare. Nonostante tutto.
Ricordo ricorrente: lei bambina, seduta in un salottino rosso, la sera ascoltava le fiabe che le raccontava papà, in particolare la leggenda di San Giorgio e del drago vista dalla parte del drago. Un giorno il Manga si trova le valigie in corridoio, nell’appartamento di Milano in cui convive (separato in casa) con sua moglie Fausta Chiaruttini. È lei che gli ha preparato le valigie, perché tolga finalmente il disturbo. E così Giorgio, che nel frattempo ha cominciato una infelice storia parallela con la poetessa Alda Merini, prende un treno per Roma. E Lietta? La bambina, che non ha ancora 7 anni, vive da tempo in Emilia con i nonni materni. Solo un decennio dopo rivedrà suo padre: non perché lui l’abbia cercata, ma perché lei (complice la nonna che ha trovato l’indirizzo) ha cominciato a scrivergli ricevendo, sorprendentemente, risposta. La corrispondenza si infittisce, finché nell’estate 1964 Lietta (complice questa volta la madre) decide di andare a trovarlo al terzo piano di un palazzo romano: «Scusi, lei è il professor Manganelli? Allora io sono sua figlia!». Gli incontri si ripeteranno, con lunghe passeggiate, qualche pranzo e qualche appuntamento mancato, quando lui eviterà di farsi trovare senza preavviso. «Pensa che strano, – le ripeteva il Manga – riesco a volerti bene nonostante tu sia mia figlia» (senza voto).