Generazione Covid-19

/ 20.04.2020
di Aldo Cazzullo

I bambini di oggi saranno probabilmente chiamati Generazione Covid-19. Ma va detto che ogni generazione ha avuto le sue sofferenze, i suoi ostacoli da superare, le sue guerre da combattere.Mi accade spesso, in questi giorni di quarantena forzata, di pensare alla generazione dei miei genitori, che hanno più di ottant’anni. Sono stati bambini durante la guerra, e vecchi durante la pandemia. La loro vita si è aperta con una tragedia, e ora ne vedono un’altra, sia pure non paragonabile. In mezzo hanno conosciuto un tempo straordinario: entrambi trovarono lavoro nel 1958, il primo anno del boom economico (mia madre ne trovò due, di giorno in macelleria con i genitori come faceva fin da bambina, la sera centralinista alla Stipel, la società telefonica del Piemonte).

Mi accade anche di pensare alla generazione dei miei figli, i ventenni, che dovranno trovare lavoro nel momento più drammatico delle nostre vite. Per i ventenni di oggi il primo ricordo pubblico, di una cosa accaduta non soltanto a loro ma a tutti, è legato (a parte i più giovani che ricordano come prima cosa la vittoria del Mondiale di calcio in Germania) all’11 settembre, alla guerra in Iraq, al conflitto con l’Islam che sembrava destinato a essere il filo conduttore delle nostre vite, passando per il Bataclan e Nizza.

Non so come i bambini di adesso ricorderanno da adulti questo periodo. La percezione della pandemia non è uguale in tutta Europa: in alcune zone ha aperto un vuoto in ogni famiglia; in altre ha portato l’angoscia di non poter lavorare e sfamare i figli; in altre è stata un misto di timore e frustrazione. Non credo sia utile dare ai bambini una visione consolatoria. La cosa migliore è piegarsi sul solco delle loro piccole vite, ascoltarli, comprenderne le paure, tentare di prepararli ad affrontare con serenità il tempo terribile e grandioso che ci attende.Particolarmente prezioso si rivela l’amore a cerchio di vita tra i bambini e i loro nonni. Tra le poche cose belle di questi giorni ci sono i nonni che imparano la usare le chat e Skype per parlare con i nipoti, che pur dovendo stare a prudente distanza hanno più tempo libero per ascoltarli e stare con loro.

Mai come oggi è importante che i nonni parlino con i nipoti. Molti erano bambini durante la guerra: i loro primi ricordi sono le sirene, i rifugi antiaerei, le bombe. A volte sono ricordi angoscianti, a volte lievi: molti ottantenni mi hanno raccontato che era quasi un gioco avvistare o sentire il rumore di «Pippo», come venivano chiamati gli aerei isolati che peraltro seminavano spesso la morte, sganciando bombe o mitragliando i passanti; eppure per qualche prodigio dell’infanzia – o della memoria – sono rimasti non come un incubo spaventoso ma talora appunto come un gioco per quanto rischioso. Dopo la guerra vennero anni durissimi, senza cibo e senza medicine, in cui con un lavoro instancabile i nostri padri e le nostre madri ricostruirono un’Europa distrutta e umiliata. Di tutte queste cose, dell’infanzia di nonni e bisnonni, i nostri ragazzi sanno meno di nulla.

Mai come oggi i racconti degli anziani sono preziosi, per inserire le difficoltà del momento in un contesto, relativizzarle e superarle. Non siamo la prima generazione che deve soffrire, anzi le altre hanno fatto sacrifici che oggi non riusciamo neanche a immaginare.Purtroppo non si vede l’ombra né dei progetti che ricostruirono il continente dopo la bufera della guerra, né della fiducia che animava gli europei del tempo. Le condizioni materiali sono incomparabilmente migliori rispetto ad allora: nel dopoguerra molti erano analfabeti, moltissimi vivevano in case senza riscaldamento, senza bagno, talora senza elettricità e acqua corrente. Ma invano si cercherebbe quella convinzione che, studiando e lavorando, si sarebbe potuta migliorare la propria condizione. È proprio questo spirito che dovremmo recuperare e trasmettere ai nostri figli, se teniamo al loro futuro.