Gaffe da ridere (e da piangere)

/ 27.06.2022
di Paolo Di Stefano

Non riesco più a divertirmi, con la letteratura, come mi succedeva anni fa sfogliando, per esempio, Tre uomini in barca, i racconti di Mark Twain o i primi romanzi di Gianni Celati, tipo Le avventure di Guizzardi. Forse il mio umore va peggiorando, forse i miei gusti sono invecchiati, ma raramente mi è capitato di ridere tanto, negli ultimi tempi, leggendo un libro. Non sorridere o ridacchiare, ma ridere proprio. È l’effetto che ha prodotto in me, istantaneamente, il nuovo libro di Mario Fortunato, intitolato Autobiografia della gaffe (Neri Pozza editore), che si merita un bel 5½ anche «solo» per il merito di avermi strappato qualche sana risata. Fortunato è tutt’altro che un autore comico o grottesco, è stato tra i primi a occuparsi di narrazioni migranti, è autore di celebrati romanzi di tipo psicologico e sociale, che utilizzano volentieri una vena di umorismo anche satirico.

Qui invece racconta il suo «destino di gaffeur» a partire da un esilarante episodio degli anni ’90 quando, ventottenne, era al suo primo libro: sala affollatissima, dibattito sulla letteratura e i giovani, Fortunato si trova al tavolo dei relatori, di fronte a sé, in prima fila accanto al sindaco della città, il più prestigioso e autorevole editore del tempo, Giulio Einaudi. Prendendo la parola, Fortunato si imbarca chissà perché in un discorso sulla differenza tra il dolore planetario e il dolore privato, facendo l’esempio di una mutilazione: se un individuo, per un incidente, si ritrova amputato di un braccio, il suo dolore sarà incomparabile rispetto a qualunque pur gigantesca catastrofe mondiale. Quel che sfugge a Fortunato è che il sindaco, seduto in prima fila ad ascoltare quella sottile discettazione, è privo non di una gamba o di un orecchio, ma proprio di un braccio. Non appena l’impensabile gli si spalanca davanti agli occhi, invece di ritirarsi e tacere per sempre, il giovane scrittore, preso più dal panico che dalla vergogna, si va a infilare in un tunnel di contorsioni ulteriori sulla letteratura come «arto mancante e amputazione primaria», mentre l’editore dà crescenti segni di agitazione. Una gaffe epica da cui uscire a dir poco tramortiti. Ma insomma, a trent’anni dal fattaccio, Fortunato ha deciso di fare i conti con quella memoria antica fino a nobilitarla iscrivendo la gaffe nell’illustre tradizione zen del tiro con l’arco: in virtù della quale si colpisce il bersaglio senza volerlo. Già l’idea di colpire il bersaglio senza volerlo è un’immagine comica, specie se quel miracolo produce effetti deleteri.

L’unico punto del discorso di Fortunato che non convince è che la gaffe, secondo lui, sarebbe essenzialmente una manifestazione di sincerità (involontaria) giovanile. Per smentirlo, basta pensare a quella «macchina da gaffe» che è il quasi ottantenne Joe Biden. Che non si risparmia mai: sulla Russia e su Putin, su Taiwan, sul presidente nordcoreano (che ha chiamato con il nome del suo predecessore), sugli elettori neri che votando per i repubblicani rischierebbero di tornare in catene. La differenza rispetto alle gaffe di Fortunato è che quelle del presidente americano non fanno ridere. A parte la scena in cui, dopo aver pronunciato un lungo e applaudito discorso, si volta per stringere la mano a un suo interlocutore che non c’è. E dunque per un secondo lo vediamo con la mano tesa verso il nulla (un simpatico vuoto d’aria da 5+, diventato ovviamente virale).

Forse aveva ragione il dottor Freud nel definire la gaffe il «prodotto di un calcolo inconfessato» (5½), e forse non aveva torto Umberto Eco quando parlava di un «atto di sincerità non mascherata» (6–).

In queste faccende, infatti, il discrimine tra lapsus ed errore per ignoranza è quasi impercettibile. Senza rivangare un celebre tunnel che partiva dal Cern di Ginevra per arrivare al Gran Sasso o il famoso «abbronzato» rivolto anni fa all’appena eletto presidente Barak Obama, caso unico di gaffe volontaria e per nulla spiritosa (2– di scoraggiamento del tentativo di spiritosaggine), ecco ora un altro miliardario, il settantasettenne Rodolfo Hernández (2 secco). Il quale, candidato alla guida della Colombia e chiamato «vecchietto TikTok» per l’abuso adolescenziale di social, si è vantato di essere un seguace «del grande pensatore tedesco Adolf Hitler», per poi correggersi con Einstein.

Gaffe involontaria o volontaria? Comunque, da piangere più che da ridere.