Mentre l’Islanda, al primo posto del Global Gender Gap Report stilato dal World Economic Forum, legalizza la parità di salario tra uomini e donne, la Svizzera, dove il gap rimane a quota 18,1%, grazie all’opposizione da parte degli Stati, fa un passo indietro sulla revisione della Legge federale sulla parità che vorrebbe introdurre delle misure di controllo obbligatorie per le imprese.
Non per niente il «Tages Anzeiger» l’8 marzo ha pubblicato in prima pagina una vignetta dal titolo Sparizione delle donne nei posti dirigenziali che mostra la classica riunione del CdA con 11 uomini seduti intorno al tavolo e una sola donna. Il perché della vignetta è presto spiegato, il «Tagi» si riferisce ai dati del rapporto annuale stilato dall’azienda del cacciatore di teste Guido Schilling che per il 2018 decreta una diminuzione delle donne nei posti dirigenziali, meno 8% rispetto al 2017. Si tratta della prima recessione registrata dal 2009 su uno studio che ha interessato le 118 aziende più grandi della Svizzera. Non solo, l’altro dato allarmante riguarda le nuove acquisizioni femminili nei posti dirigenziali, dove dal 21% dello scorso anno si è passati all’8% di quest’anno. Poi qualcuno si chiede ancora perché dobbiamo lottare per la parità di genere. Pensiamo solo alle politiche di conciliazione lavoro famiglia, al congedo paternità e al congedo parentale che in Svizzera è ancora un miraggio rispetto a Danimarca, Islanda, Norvegia e Svezia ma anche Germania e Austria, dove un papà può stare a casa con i bimbi per uno, due mesi o anche per periodi più lunghi al 67% dello stipendio.
E se dal mondo politico ci arrivano messaggi deludenti, spia di una classe politica che non sa farsi interprete e portavoce dei bisogni reali di una società che chiede maggiore flessibilità e parità economico sociale, in Rete e sui social, vi sarete accorti anche voi, da qualche tempo ci sono diversi segnali che ci raccontano di una società attenta alle questioni di genere. Ricorderete tutti la campagna virale #Metoo contro le molestie sessuali, diventata un movimento premiato dalla copertina del «Time» come personaggio dell’anno. Ora, da qualche giorno, a far discutere gli utenti ci sono le nuove Barbie ispirate a grandi donne del passato e del presente come l’artista Frida Kahlo, la matematica della NASA Katherine Johnson, la prima donna pilota Amelia Earhart ma anche campionesse dello sport come la snowboarder statunitense Chloe Kim. Sulle prime ho subito pensato al successo del libro Storie della buonanotte per bambine ribelli, un progetto appena tornato in libreria con il secondo volume che, proprio come l’operazione della Mattel, mira a dare alle nuove generazioni dei modelli di riferimento femminili emancipati e di successo a cui ispirarsi. Mentre però il libro è stato apprezzato da più parti, l’operazione della Mattel, in particolare sui social, è stata oggetto di svariate critiche. Se l’intento era quello di riprodurre donne vere esaltandone le peculiarità di ognuna, ci si è chiesti perché tutte le Barbie sono ugualmente magre. In particolare, ad essere criticata sui social a suon di hashtag #fridakahlo è stata la Barbie che riproduce l’artista messicana. Secondo i suoi famigliari la bambola non rappresenta fedelmente l’artista mentre l’attrice Salma Hayek e molte altre persone ne reclamano il sopracciglio marcato e continuo così come la disabilità.
Dove voglio arrivare? Credo che la società connessa sempre più numerosa, giovane e rappresentativa che in Rete si esprime e dibatte in modo costruttivo e virtuoso andrebbe ascoltata maggiormente e non chiamata in causa soltanto quando insulta o fa danni. Credo anche, se vogliamo evitare un backlash epocale, che sia giunto il momento di far sì che in politica siedano uomini e donne capaci di farsi portavoce dei bisogni reali di una società in evoluzione che, come tutto il resto, cambia velocemente e deve poterlo fare in un quadro normativo, in un contesto civile all’altezza delle sue aspettative.