Io lo conoscevo bene.
La morte di Franco Rosso, una decina di giorni fa, ha risvegliato in me tanti ricordi. Dopo aver ceduto ad Alpitour nel 1998 l’azienda turistica che ancora oggi porta il suo nome, Franco Rosso trascorreva molto tempo a Lugano, dove vive parte della sua famiglia, attiva nel settore alberghiero. E vent’anni fa frequentava spesso il mio maestro, Vittorio Dan Segre, l’ebreo fortunato, quando Segre insieme a un altro industriale illuminato, Luigi Bosca, aveva creato presso l’USI l’Istituto Studi Mediterranei, un piccolo quanto dinamico incubatore di nuove idee (a cominciare per esempio dal Master in International Tourism, il primo in Svizzera, che festeggia proprio quest’anno il ventesimo anniversario).
Ogni tanto coglievo qualche scampolo delle loro conversazioni, storie affascinanti che per me restavano sempre un po’ incerte nei dettagli di luoghi, date, persone. Nonostante le frequentazioni internazionali, Segre e Rosso parlavano spesso di Cuneo, da dove venivano e dove, dicono i piemontesi (un poco esagerando), ci sono i soldi veri; lì si deciderebbe quello che poi viene messo in scena a Torino, capitale regionale tutta di facciata. Non a caso, del resto, anche il principale tour operator italiano, Alpitour, fu fondato proprio a Cuneo nel 1947, col nome di Alpi Viaggi.
Appresi così che dopo la promulgazione delle leggi razziali (1938) il giovane Vittorio Segre era fuggito in Israele, mentre il padre Arturo, ufficiale di cavalleria durante la Prima guerra mondiale e sindaco del paese, si era dato alla vita di strada, fingendosi venditore ambulante di oggetti d’uso quotidiano, protetto soltanto dall’affetto e dal silenzio dei suoi concittadini. L’anziana madre rimase però nella casa di famiglia e fu salvata da una retata grazie proprio ai Rosso, che corruppero la milizia fascista (o erano i nazisti?) con pneumatici della loro ditta di trasporti.
E ancora: nonostante Franco Rosso avesse viaggiato (e fatto viaggiare) in tutto il mondo, della sua lunga carriera ricordava soprattutto gli umili inizi. Nel 1953 aprì a Torino l’Ufficio Turistico Franco Rosso. E quando gli antenati di Alitalia istituirono il primo volo diretto da Roma a Torino, Franco Rosso organizzò un pullman per l’aeroporto. All’arrivo dell’aereo, dopo che i passeggeri erano sbarcati, i buoni borghesi torinesi salivano a bordo, percorrevano il corridoio centrale e scendevano dall’altra parte; dopo un rinfresco, tornavano a casa senza aver mai staccato i piedi da terra. Ammirare i nuovi, lucenti aerei americani Douglas bastava a giustificare un viaggio.
Questi modesti programmi erano la conseguenza della guerra perduta naturalmente, ma anche espressione di un turismo che, dopo oltre un secolo di vita, conservava ancora dimensioni tutto sommato assai ridotte. Nel 1950 i turisti internazionali erano solo venticinque milioni (per fare un paragone, prima della recente pandemia il loro numero si aggirava intorno al miliardo e mezzo).
Negli anni Settanta Francorosso portò gli italiani in Kenya con voli charter, soprattutto a Malindi. Era una novità assoluta anche se, curiosamente, molti italiani erano già stati nel Paese africano, ma in altra forma. Il padre di Franco Rosso per esempio aveva lavorato come capocantiere in Africa nel periodo tra le due guerre, quasi certamente nell’Africa orientale italiana (Etiopia, Eritrea, Somalia); l’impero coloniale proclamato da Benito Mussolini con toni altisonanti nel 1936 e durato cinque anni appena. Dopo la sconfitta militare, alla fine del 1941, ben centomila italiani, tra civili e militari, erano stati internati in Kenya.
Vittorio Segre amava raccontare la straordinaria impresa di un giovane funzionario coloniale, il triestino Felice Benuzzi. Insieme a due compagni di prigionia Benuzzi fuggì dal campo al solo scopo di piantare la bandiera italiana sul Monte Kenya (5199 metri), la seconda vetta del continente africano dopo il Kilimangiaro (5895 metri). In precaria forma fisica, con pochi viveri e un’attrezzatura di fortuna, i tre evasi compirono la straordinaria impresa alpinistica, per poi riconsegnarsi ai loro carcerieri, considerata l’impossibilità di raggiungere un Paese neutrale. La loro storia sarà poi raccontata in inglese nel libro No Picnic on Mount Kenya (in italiano Fuga sul Kenya, Corbaccio editore).
Ricordi di uomini fuori dal comune.