Strano anno. Sempre incerti su ciò che ci aspetta il giorno dopo, da mesi. Abbiamo fatto l’abitudine a mascherine disinfettanti distanze, abbiamo fatto l’abitudine al fatto che tutto questo non basta. Ci stiamo pure abituando ad avere decessi ogni giorno e tassi di mortalità fra i più alti al mondo? Spesso questi lutti non ci concernono, se non quando muore un personaggio locale, oppure, tragicamente, tocca a noi. Cos’è: indifferenza? O fatalismo, poiché non siamo in grado di risolvere individualmente la situazione (benché la influenziamo) e dobbiamo comunque accettare quel che succede?
Come finisce questo anno? Dalla prima ondata sembravamo usciti migliori, ma la seconda ondata è carogna. Miete ancora più vittime. Mette zizzania; lo vediamo in queste settimane fra le autorità del nostro paese, i governi cantonali e quello federale. Queste righe saranno già stampate, quando si chiarirà se il Consiglio federale imporrà a tutti i Cantoni la chiusura dei ristoranti alle 19, dei negozi la sera e la domenica, impedendo ogni attività pubblica, ma complessivamente in questo momento si notano i limiti del federalismo. Alcuni governi cantonali reagiscono drasticamente, altri non si muovono se non lo fanno anche quelli vicini. Una gran confusione, di cui non si sente il bisogno. Quando martedì il Consiglio federale ha lanciato un ultimatum affinché tutti i Cantoni adottassero misure drastiche entro venerdì vista la situazione epidemiologica, diversi Cantoni hanno protestato, ma fra questi ce n’erano anche diversi, svizzero tedeschi, che chiedevano al Consiglio federale di decretare di nuovo lo stato di necessità. In questo modo sarebbe di nuovo chiaro chi comanda e non avremmo più lo stuolo di differenze cantonali che la popolazione non può capire, né considerare sufficientemente credibili.
In questi mesi mi è spesso tornata in mente una frase della nostra Luciana Caglio, durante una visita in redazione a fine (primo) lockdown: «dicono che ne siamo usciti migliori, ma era, andava poi tanto male il mondo di prima?». A guardare la seconda ondata, con la sua carica di nervosismo e aggressività, non si può dire che le lezioni etiche percepite durante la prima, con gli slanci di solidarietà, siano oggi predominanti. C’è qualcuno che non rimpiange la situazione precedente il Coronavirus? Forse non era poi così male.
Tuttavia, una crisi offre sempre un potenziale di rinnovamento, anche se spesso a caro prezzo. Potremo, a pandemia terminata, tornare a guardare il mondo come facevamo prima? Il virus non ci rivela la fisicità della nostra fragilità umana? Mantenere ed estendere questa consapevolezza agli altri, tanti, grandi problemi dell’umanità potrebbe diventare un po’ più facile, più ovvio. Se un virus stravolge l’umanità in poco tempo, non meno travolgenti sono altri drammi, da quelli ambientali e climatici, a quelli legati alla povertà e alle ingiustizie, alle dittature, ad un sistema economico che si allontana sempre più da un livello sostenibile di equità. E sapendoci tutti vulnerabili, forse potremmo ricostruire un maggiore senso di solidarietà, superando la forma egotica dell’individualismo che ci sta penalizzando come collettività. In Svizzera abbiamo visto che si può fare, lo Stato ha sostenuto e tuttora sostiene finanziariamente l’economia e la popolazione, altri paesi purtroppo sono ben lungi dal percorrere il cammino dalle promesse alla realtà. Ma le aspettative crescono ovunque e non potranno essere ignorate a lungo.
Le conseguenze del 2020 si sentiranno a lungo. In negativo ma anche in positivo, se ci risveglieremo con una maggiore consapevolezza del fragile e prezioso che sta in noi e al di fuori di noi.
Frammenti di un anno insolito
/ 14.12.2020
di Peter Schiesser
di Peter Schiesser