Fra i punti salienti della visita in Giappone che ha nutrito le pagine di questa rubrica nelle ultime settimane vi è certamente la già menzionata visita all’allevamento di vacche nei pressi di Kobe. Le vacche di Kobe sono famose per la carne ricca di grassi distribuiti finemente nei tessuti che la rendono particolarmente saporita ed incredibilmente costosa, dal momento che la qualità migliore è ottenuta massaggiando le aree cruciali del quadrupede al fine di far penetrare i grassi nel tessuto muscolare. Si tratta di vacche da carne, di razze autoctone giapponesi che, fino alla fine della Seconda Guerra, erano confinate in aree marginali ed isolate dell’arcipelago ed allevate in numeri esigui.
Si sa che in Giappone le vacche erano presenti sin dal II secolo dopo Cristo, ma la loro diffusione era ostacolata da ragioni economiche: l’ammontare di terreno coltivabile in Giappone è estremamente scarso, e la scelta strategica era tra coltivare il riso o allevare vacche, che – come è noto – hanno bisogno di vaste aree da pascolo per nutrirsi. E così quel materiale che fu cruciale fino ai temi moderni in tutto il mondo in tutti i campi della manifattura – intendo ovviamente il cuoio – risultava estremamente raro e prezioso. Funi, armature, calzature e quant’altro erano fatti di materie vegetali – e di mangiare carne se ne parlava ogni morte di Papa – cioè praticamente mai dal momento che il Papa in Giappone non c’è.
A Kobe, peraltro, si cominciò a sviluppare la produzione di latticini con razze importate dall’Europa per supplire alle esigenze della popolazione europea che venne a stanziarsi nei pressi del porto con l’apertura del Giappone al commercio estero nella seconda metà dell’Ottocento. Oggi la produzione di latte e derivati è per lo più una sorta di curiosità. Ricordo gli ospiti del ristorante annesso ad un allevamento di vacche da latte Holstein fare assaggi di formaggini e ricottine in quantità microscopiche dal momento che i Giapponesi, come peraltro tutti i ceppi di popolazioni di origine asiatica non riescono a digerire latte e derivati. Quello della lattasi è un mistero dell’evoluzione ancora da chiarire. Laddove fra i cosiddetti caucasici (e ci siamo dentro anche noi europei) l’incidenza dell’intolleranza ai latticini – pur peraltro presente – è contenuta in percentuali minime, raggiunge cifre molto alte fra le popolazioni asiatiche ed africane.
Provate ad immaginare: la progressiva impossibilità a digerire il latte – la scomparsa ovvero della lattasi, enzima che ne permette la digestione, sarebbe una strategia dell’evoluzione per permettere gravidanze ravvicinate e dunque la crescita demografica: la progressiva incapacità a digerire il latte farebbe ovvero spazio – per così dire – ad una nuova gestazione ed al nutrimento dei neonati. Questo si applica a tutti i mammiferi: i bovini dal canto loro, producono addirittura ghiandole specializzate nella digestione del latte (le cosiddette «animelle», delizioso piatto scomparso con la crisi della Mucca Pazza) che si atrofizzano per poi sparire con l’età. Perché gli Europei non si siano adeguati a questa strategia evolutiva resta un mistero. Sta di fatto che la persistenza della lattasi ha favorito non da poco la storia evolutiva dell’Occidente.
Il latte è una riserva ricchissima di proteine animali. È «portatile» – nel senso che uno si porta dietro chi lo produce e ne utilizza i prodotti alla bisogna – ed è, soprattutto, compattabile e conservabile per lungo tempo. Non solo lo si può rendere ancora più digeribile nella forma fermentata (ovvero già mezza digerita) come è lo yoghurt, ma lo si tesaurizza come formaggio in quelle che sono vere e proprie bombe caloriche: le orde che dal Caucaso ed oltre migravano verso l’Europa cavalcando giorno e notte senza sosta avevano nel formaggio una sorta di arma strategica che permetteva loro di muoversi in continuazione senza dover fermarsi per buttare la pasta – mettiamola così. Che la permanenza della lattasi abbia costituito una mutazione genetica in ultima analisi vincente lo dimostra anche il fatto che presso le popolazioni pastorali africane – che dovrebbero per definizione non essere in grado di digerire il latte – l’intolleranza al lattosio riguarda percentuali minoritarie della popolazione. Significativamente sono proprio le popolazioni pastorali nomadi più antiche ad avere le più basse percentuali di intolleranza: solo il 16% fra i Tutsi dell’Uganda ed il 20% fra i Fulani del Sahel che verosimilmente cominciarono ad allevare bestiame attorno al 10’000 a.C., laddove fra i Masai del Kenya che sembra abbiano adottato un’economia pastorale cinquemila anni più tardi la percentuale di malassorbimento di lattosio nei bambini post-svezzamento sale al 62%.
Se, come diceva Churchill, in politica una settimana è un lungo periodo, dal punto di vista evolutivo cinquemila anni sono nulla. A meno che non si vada per altre soluzioni al problema. In uno dei rari, rarissimi casi di humour riscontrati nelle terre del Tenno, durante l’assaggio di formaggi a Kobe, uno dei miei studenti mi chiedeva se fosse o meno vero che in Europa si produce il formaggio con i buchi. «Certo – e ce n’è più di una varietà» confermava l’Altropologo. Si mise a ridacchiare imbarazzato coprendosi la bocca e gli occhi come si fa solo da quelle parti: «Peccato che non lo producano anche qui: almeno potremmo mangiare i buchi».