Nel passaggio dal vecchio al nuovo anno, alla fine, non sono stata sotto le coperte come avevo scritto nella scorsa puntata della mia rubrica o, comunque, non ci sono stata così a lungo. Il sole e il cielo color cobalto mi hanno spinta ad uscire e ad assaporare l’aria mite e dolce così inusuale di quest’inverno che non vuole proprio irrigidirsi e imbiancarsi. Sono stata dunque tante ore all’aria aperta, sola, silenziosa, in ascolto. Ho passeggiato molto fino a quando, tornata nel mio giardino, ho deciso di dedicarmi ad una delle mie attività preferite: la raccolta delle foglie.
Può sembrare una banalità, e anche una scocciatura, insomma raccogliere le foglie non è propriamente considerata un’attività nobile o particolarmente utile. Eppure vi assicuro che fa bene allo spirito, aiuta a riflettere, e soprattutto stimola una facoltà essenziale che sempre di più andiamo perdendo: la capacità di osservare. Iper stimolati dalle nuove tecnologie, dai telefonini, pc, tablet che catturano l’80% della nostra attenzione quotidiana e concentrano tutta la nostra facoltà visiva in uno schermo rettangolare, grande o piccolo che sia, assomigliamo sempre di più a dei cavalli con i paraocchi. Con la sostanziale differenza che i cavalli ne farebbero volentieri a meno, dei paraocchi, mentre noi umani siamo bravi a infilarceli da soli autolimitando il nostro campo di osservazione.
Torniamo dunque alle foglie. Ce ne sono ovunque: sul vialetto di ingresso, sul prato, sui gradoni del giardino inglese, sulla ghiaia... Occorre decidere da dove iniziare, quale direzione seguire e come procedere per non fare un doppio lavoro e non perdere tempo. Certo, anche nella raccolta delle foglie l’organizzazione e il metodo sono importanti così come la pazienza e la concentrazione. Tra l’altro, per noi uomini moderni che non solo limitiamo il nostro sguardo ma anche i nostri movimenti, visto che trascorriamo gran parte del nostro tempo seduti ad una scrivania o in auto, raccogliere le foglie è un buon esercizio mentale ma anche fisico. Decido di iniziare dal viale e, dopo qualche colpo di rastrello, mi scaldo e prendo il ritmo colma di meraviglia e curiosità per quel suolo che man mano si libera e viene alla luce svelando piccole verdi perle.
E nel fare pulizia, nel liberare la superficie nascosta, di riflesso avviene lo stesso dentro di me: rimuovo strati inutili, barriere sedimentate che si frappongono tra me e il mondo e gradualmente entro in dialogo con il verde e la natura tutto attorno. Osservo, mi concentro per non dimenticare nemmeno una foglia, mi chino a terra per non commettere l’errore di scambiare un crocus per un mughetto, alla mia età e con ore di pc alle spalle succede, e con meraviglia lo riconosco, proprio lui così morbido e capace di crescere tra gli interstizi più stretti e le superfici più impervie: il muschio. Bistrattato o comunque dimenticato dalla cultura botanica occidentale, il muschio viene invece cantato e lodato dai poeti giapponesi nei loro taccuini di viaggio e nelle grandi raccolte imperiali mentre i monaci in pellegrinaggio vi posano il capo e sognano. A raccontarlo è Véronique Brindeau nel suo Elogio del muschio «era prima del tempo degli uomini, ben prima di quello degli alberi e dei fiori. Perfino prima delle felci, trecento milioni di anni fa».
Il muschio cresce sulle tettoie di paglia degli eremi, sopra ogni paletto tarlato, accanto ai templi e nel giardino che porta alla casa del tè, dove si reca chi vuole affrancarsi dal mondo. E l’amatore di muschi, ci dice Véronique Brindeau è «un gigante tra i Lilipuzziani», che rimpicciolendo se stesso, chinandosi verso il suolo, avvicinandosi all’humus in un gesto di raccolta e di umiltà etimologica, è in grado di accrescere la portata e l’ampiezza del suo sguardo, di modificare il suo punto di vista sulle cose cambiandone radicalmente il fuoco. Ecco il mio augurio per il 2017 e il mio personale proposito: raccogliamo tante foglie e diventiamo degli amatori di muschi.