Non è vero che gli italiani, e in particolare i milanesi, siano nel panico. L’altro giorno ho fatto una lunga passeggiata nel centro di Milano, dal Duomo alla stazione centrale. Ne ho tratto una sensazione di inquietudine ma soprattutto di tenuta.
La capitale del Nord è in effetti semideserta, ma non è in ginocchio. Questo surreale ferragosto a fine inverno provoca un senso di spaesamento, una doverosa preoccupazione per l’economia, un legittimo timore per il contagio; ma dà anche il senso di una città e di un Paese che reagiscono.
Il Duomo non è mai stato chiuso; è sempre rimasto aperto per chi entra a pregare, che è poi il principale motivo per cui si va o si dovrebbe andare in chiesa; ora è stato anche riaperto ai turisti. Le farmacie non sono sguarnite; qualcuna assicura che sta finalmente arrivando pure l’amuchina. I supermercati non sono presi d’assalto; in quello di piazzale Baiamonti ho trovato una coda normale, certo con una tendenza all’accaparramento, che svela abitudini alimentari e stili di vita (il signore in coda davanti a me ad esempio si è portato a casa cinque vaschette di salsiccia e cinque panetti di burro).
Piazza Gae Aulenti era spazzata da un vento che non ha disperso il set di un fotografo di moda: una modella cinese stava posando – «togliti gli occhiali da sole», «non guardare in camera» – sotto gli sguardi insospettiti dei rari passanti. Quasi vuoti i ristoranti, frenetico invece l’andirivieni dei rider che consegnano i pasti a casa. L’unico luogo di assembramento nei giorni scorsi è stata la stazione centrale: senza preavviso è stata bloccata la linea che congiunge i due più importanti nodi ferroviari del Paese, Milano e Bologna; quella dell’alta velocità è stata a lungo sequestrata dall’autorità giudiziaria e solo pochi giorni fa è tornata disponibile, quella tradizione è stata interrotta a Casalpusterlengo; visti passeggeri in lacrime nel tentativo ovviamente vano di chiamare l’apposito numero di Trenitalia per cambi prenotazione e rimborsi.
Ci sono anche la rabbia e la protesta. Quasi nessuno crede che l’Italia sia il Paese più colpito solo perché è l’unico che fa i tamponi, peraltro quasi finiti. C’è chi considera demagogica la scelta di bloccare i (pochi) voli diretti dalla Cina, rinunciando a controllare chi arrivava dopo aver fatto scalo. Chi fa notare che l’Europa avrebbe dovuto concertare provvedimenti comuni, che avrebbero ridotto il rischio e l’impatto dell’epidemia. Chi sostiene che il virus sia stato sottovalutato, come se il problema fosse fare pubbliche scorpacciate di riso cantonese per rassicurare i cittadini, anziché metterli in sicurezza.
Chi invoca un’autorità unica e protocolli unici, che avrebbero forse evitato il fatale errore commesso all’ospedale di Codogno, dove il paziente 1 è stato prima rimandato a casa con l’antibiotico, poi ricoverato in medicina dove – ovviamente senza colpa – ha infettato medici, infermieri, pazienti. Ma c’è anche chi teme che le misure siano forse eccessive e di sicuro depressive per l’economia.
Molti italiani esprimono sofferenza. La sofferenza del prete che non può dire messa, dell’artista rimasto senza pubblico, del medico e dell’infermiere che si ritrovano in prima linea come e più di sempre. E la sofferenza dell’anziano che vede la morte dei suoi coetanei declassata a evento inevitabile, talora salutato con ingiusto sollievo.
Non a caso tra gli articoli più dolorosamente belli letti sui quotidiani ci sono le interviste ai figli dei primi morti, che ribadiscono: non era il paziente zero o il paziente uno o il paziente X; era mio padre, e aveva diritto anche solo di sperare in una fine più serena, non intubato, circondato da gente in tuta e mascherina, impossibilitato a vedere per l’ultima volta i suoi cari. Non è mai il momento giusto di dire addio a un genitore. Anche quando è molto anziano, è sempre troppo presto. Figurarsi nell’atmosfera plumbea di questi giorni, magari con esequie frettolose, e il timore di essere rimasti a propria volta contagiati. La verità è che la paura ispira talora comportamenti poco nobili. Cui fa da contraltare uno spirito di resistenza e di umanità testimoniato da migliaia di storie di ricercatori, medici, infermieri.
Quasi tutti gli italiani hanno afferrato il punto: è iniziata la battaglia contro un nemico ancora poco conosciuto. La battaglia non poteva che cominciare nell’area più dinamica del Paese, quella più aperta alla Cina e al mondo, anche se il nemico ha colpito non nel cuore ma nelle aree periferiche di quella grande metropoli che è la pianura padana. La battaglia non potrà che essere vinta, sia pure a un prezzo che oggi non siamo in grado di valutare. Quando il peggio sarà passato, servirà un grande piano di rilancio dell’economia; senza star lì a fare i calcoletti pensati a Maastricht in un contesto ben diverso. Siccome pure la Germania ha visto la sua economia rallentare e il virus arrivare, stavolta la musica in Europa sarà diversa. Altro che austerity. È il momento degli investimenti e di una politica economica espansiva.