Ungheria e Polonia hanno deciso di testare la loro appartenenza all’Unione europea in ogni occasione possibile. Anche se alla fine venerdì scorso hanno fatto cadere i rispettivi veti e votato con gli altri Paesi Ue a proposito del Recovery Fund, lo storico piano di rilancio economico europeo finanziato per la prima volta con l’emissione del debito comune. A dire il vero i due paesi dell’Est non si muovono del tutto all’unisono: la Polonia è più cauta, più divisa al suo interno, più consapevole del fatto che i fondi europei sono fondamentali per la tenuta economica del Paese.
In Polonia poi il governo del PiS – il partito Diritto e Giustizia che è il feudo di Jaroslaw Kaczynsky, ora vicepremier uscito dall’ombra in cui ha sempre preferito stare – non ha la maggioranza assoluta al Parlamento e l’opposizione è molto vivace e molto, come si dice, movimentista: ci sono molte proteste nelle città, spesso compaiono le bandiere europee. Quando si allea con l’Ungheria, la Polonia sa benissimo di essere l’anello debole, e anche in quest’ultimo negoziato – Varsavia e Budapest avevano posto il veto all’approvazione del bilancio pluriennale dell’Unione europea da cui dipendono i fondi anti-pandemia del Recovery Fund, quando non sussista il rispetto dello Stato di diritto nei paesi membri – i primi scricchiolii erano arrivati proprio dalle divisioni interne al governo polacco di Mateusz Morawiecki.
Viktor Orbán, premier ungherese, è uno che invece non scricchiola mai, o almeno non lo farebbe mai vedere. Pur avendo una dipendenza dai fondi europei ancora maggiore in termini relativi rispetto alla Polonia, pur avendo costruito il suo immenso potere proprio su questi contributi – andate a vedere com’è diventata la città natale di Orbán, Felcsut, feudo familiare, oppure sentite come risponde minaccioso il padre del premier quando gli chiedono se la sua azienda di costruzioni ha qualche know how speciale visto che vince spesso appalti pubblici generosi – Orbán non ha un’opposizione interna forte ed è un grandissimo calcolatore. Anche in questa vicenda, finita poi come spesso accade con un passo indietro perché la dipendenza dall’Ue è più rilevante delle battaglie antieuropeiste, Orbán va dicendo che ha vinto un’altra volta, anche se a guardare il testo dell’accordo la condizionalità sullo stato di diritto c’è ancora.
La vittoria di cui parla il premier ungherese è un’altra e riguarda soltanto lui: non gli ungheresi, non i paesi vicini, non certo il rispetto dei diritti, a conferma del fatto che la dicitura «interesse nazionale first» spesso coincide con l’interesse personale del leader in questione. La cosiddetta vittoria di Orbán con l’Europa è che comunque le procedure disciplinari attivate contro l’Ungheria già da tempo devono essere valutate dalla Corte di giustizia europea, che ci metterà almeno un paio di anni, giusto il tempo perché ci siano le elezioni ungheresi che Orbán vuole rivincere, facendosi ovviamente aiutare dai fondi europei: senza, non è facile governare con successo l’Ungheria.
Il tornaconto personale c’è sempre in quello che fa Orbán. Ed è per questo che ha anche scritto una lettera al Ppe, il partito popolare europeo che ha congelato la posizione del suo partito, Fidesz, dicendo: vogliamo andarcene ma mantenendo una specie di sostegno esterno che tradotto significa maggiore indipendenza ma comunque la possibilità di avere accesso alle risorse previste per i popolari. Per Orbán è sempre e soltanto una faccenda di soldi. E se così fosse, se fosse soltanto un rapporto tra cliente e Bancomat, la questione sarebbe anche gestibile: l’opportunismo fa parte di tutte le alleanze.
Ma in questo caso, lo scontro è molto più profondo, perché l’antieuropeismo di Orbán e anche di Kaczynsky è diventato anche discriminazione e intolleranza. Non soltanto è in pericolo la separazione dei poteri su cui si fonda il concetto stesso di stato di diritto, non soltanto in Ungheria e in Polonia la stragrande maggioranza dei media è nelle mani di amici del governo e quelli che sono esclusi vengono strozzati giorno dopo giorno, non soltanto c’è una grande retorica anti-immigrazione falsa – il problema dell’Ungheria è l’emigrazione; il problema della Polonia è l’immigrazione ucraina – ma da tempo c’è una campagna di intolleranza nei confronti delle minoranze, a cominciare dai gay e dalle persone trans. Se si ascolta Radio Maria in Polonia, si capisce subito che questa è diventata la priorità culturale. Se si leggono i resoconti dall’Ungheria si capisce la stessa cosa.
E così ancora una volta ci si ritrova a dover fare i conti con paesi che disprezzano l’European way of life nella sua interezza – libertà d’espressione, sessuale, religiosa – e se lo si fa notare dicono: ingerenza! E molti, questo è il punto, ci credono.