Eppure si era mossa

/ 25.02.2019
di Cesare Poppi

Il 26 febbraio 1616 un Galileo Galilei col volto preoccupato saliva lo scalone della residenza romana del Cardinal Bellarmino per ricevere un’ingiunzione della Santa Inquisizione al termine del primo processo che lo vide sul banco degli imputati. Il team di teologi che aveva esaminato per un’intera settimana le sue posizioni su istigazione degli zelanti predicatori Domenicani Tommaso Caccini e Niccolò Lorini gli ingiungeva di abbandonare le posizioni Copernicane relative alle teoria eliocentrica in quanto «folli ed assurde del punto di vista filosofico formalmente eretiche in quanto contraddicono a più riprese il senso delle scritture». Dunque, sentenziava la lettera, Galileo avrebbe in futuro dovuto astenersi «…dall’insegnare o difendere la sua dottrina o dal discuterla… e abbandonare completamente… l’opinione che il Sole stia immobile al centro del mondo e che la terra si muova… e pertanto non difendere tale asserzione in qualsiasi forma, tanto in forma scritta quanto in forma orale». Il risultato del primo processo contro Galileo era maturato nel clima di un rinnovato sforzo della Chiesa Romana per asserire la sua autorità dopo che, col Concilio di Trento, terminato nel 1563, il partito più conservatore aveva avuto la meglio ed il crescente successo della Riforma Protestante minacciava seriamente l’autorità di Roma. 

Il dibattito sulla questione eliocentrica aveva peraltro una lunga storia. Nel 1610 Galileo aveva pubblicato il suo Sidereus Nuncius («Il Messaggero Stellato») nel quale sottoscriveva le teorie già elaborate per via matematica da Niccolò Copernico nel suo De Rivolutionibus Orbium Celestium del 1543, due anni appena prima dell’inizio del Concilio di Trento, senza peraltro suscitare reazioni che oggi chiameremmo virali. Viene da chiedersi perché mai Copernico non finì nei guai mentre Galileo sì, visto anche che – paradossalmente – il suo modello eliocentrico aveva causato forte opposizione negli ambienti protestanti e non in quelli cattolici romani. La risposta al dilemma va cercata forse nel fatto che mentre Copernico proponeva un modello matematico – e in quanto tale pertanto ipotetico e aperto alle confutazioni, Galileo sostanziava cifre e calcoli con l’osservazione sperimentale da lui effettuata telescopio alla mano – o forse meglio dire all’occhio. «Occhio non vede, cuore non duole»: quello che era stato per le equazioni copernicane, con Galileo acquisiva un carattere minaccioso di condanna di quella teoria geocentrica che – da quando Giosuè aveva fermato il sole a Gerico – era divenuta la posizione ufficiale della Chiesa. Ma qui il paradosso acquista toni da farsa. Ai tempi della contesa, la Chiesa cattolica era fortemente aristotelica nelle sue posizioni filosofiche – e prima fra tutte quel bunker di difesa dell’ortodossia che era diventata il think tank di Roma – ovvero l’Università di Bologna in particolar modo dopo il richiamo all’ordine promosso dal Concilio di Trento. Qui l’aristotelismo aveva battuto con successo la moda del neoplatonismo che, col Rinascimento, aveva riportato in auge quello che oggi chiameremmo posizioni filosofiche irrazionaliste: con Aristotele lo sguardo rimaneva fisso alle cose terrene, percepibili coi sensi e provabili con l’osservazione, così come graficamente illustrato nell’Accademia di Raffaello, dove Platone punta l’indice al Cielo mentre Aristotele indica la Terra. Era bensì vero che lo stesso Aristotele era stato geocentrico, ma la tendenza metodologicamente «materialista» della sua dottrina face, col caso Galilei, uno scivolone clamoroso nel momento in cui si preferì la lettera del testo al suo spirito. Lo stesso Cardinale Bellarmino, attento lettore dei testi galileiani, aveva espresso una certa simpatia perlomeno tradottasi in posizioni possibiliste nei confronti della teoria eliocentrica. Era addirittura arrivato a suggerire che Galileo assumesse una posizione meno dogmatica e più possibilista – onde evitare la censura – suggerendo che le sue altro non erano che «ipotesi» passibili di critica e revisione e non descrizioni di uno stato di fatto provato ed osservabile. Insomma, pur avendo messo la museruola a Galilei, le autorità ecclesiastiche avevano espresso comunque posizioni moderate nei suoi confronti. Dopo un secondo incontro con Bellarmino, Galileo ebbe un’udienza con Papa Paolo V proprio perché al corrente delle posizioni moderate dello stesso. Il Papa aveva rassicurato Galileo che sarebbe stato al sicuro da altre persecuzioni fino a quando lui fosse stato capo della Chiesa romana. Ma Galileo non ci stava. Dopo alcuni anni nei quali tenne un profilo basso, nel 1610 pubblicò uno studio sulle maree e nel 1619 un altro sulle comete. Qui sosteneva che le maree fossero una delle tante prove della teoria eliocentrica. Poi, nel 1632, ormai vecchio, pubblicò il Dialogo sui Massimi Sistemi del Mondo, Tolomaico e Copernicano dove metteva bene in chiaro che non aveva cambiato idea. Il resto è storia: stavolta la reazione dell’Inquisizione non si fece attendere e non propose compromessi. Nel 1633 Galileo fu processato e, per evitare il peggio, fu costretto ad abiurare essendo stato dichiarato «veementemente sospetto di eresia». Fonti peraltro spurie ci hanno tramandato che, al termine del processo che lo vide rinnegare il lavoro di una vita, abbia esclamato quell’«eppur si muove!» passato alla storia.

Morale? Fosse Galileo in un altro momento e non invece nel pieno del caos culturale, sociale e politico nel quale un’élite usa a governare (quasi) senza contraddittorio si trovava a dover negoziare una crisi senza precedenti (ricordiamo che per lungo tempo Lutero godette di simpatie anche presso certe alte gerarchie della curia romana prima che la situazione precipitasse), forse avrebbe goduto dello stesso trattamento veniale riservato a Copernico – lui stesso messo all’Indice dei Libri Proibiti quando Galileo fu condannato – quasi un secolo prima. Ma la Storia, ahinoi, capita quando le pare. Ovvero mai al posto giusto al momento giusto: ma tant’è.