Elogio dell’editor

/ 02.12.2019
di Bruno Gambarotta

I numerosi festival letterari, rassegne, cicli di presentazioni, premi attualmente attivi in Italia mettono al centro dell’attenzione la figura dell’autore, come se lui solo fosse l’artefice dell’opera e non un’intera squadra di collaboratori. Da assidui frequentatori delle suddette manifestazioni e in spirito di collaborazione avanziamo una modesta proposta: l’istituzione di un premio per una categoria di lavoratori dell’editoria tenuti ingiustamente in ombra, gli «editor». Sono coloro che intervenendo sui manoscritti li migliorano, rendendoli appetibili per i lettori e non solo per l’autore convinto di avere partorito un intoccabile capolavoro. Il crollo dei costi di produzione ha gonfiato il fenomeno della pubblicazione di libri a proprie spese con la valanga di lavori ricchi di auto compiacimento: tutto quello che uno scrive gli sembra buono e giusto.

L’editor che mette ordine nel caos della narrazione, elimina i doppioni, corregge gli errori geografici o storici, è una figura così importante nell’editoria di qualità che Ernest Hemingway, quando il suo editor di fiducia si licenziò per andare presso un’altra casa editrice lo seguì non volendo fare a meno della sua collaborazione.

La mia proposta: formiamo un piccolo gruppo di volontari e allestiamo un racconto pieno zeppo di incongruenze, errori di montaggio, tempi verbali sbagliati, trama sgangherata, punti di vista incongrui come il caso del protagonista che conosce fatti che ancora devono verificarsi, personaggi descritti in modi ogni volta diversi, panorami stucchevoli e convenzionali e nel caso dei gialli il colpevole che sbuca fuori all’ultima riga. Poi lo affidiamo a tutti quegli editor, in servizio o aspiranti tali, che si iscrivono alla competizione affinché ciascuno lo sistemi come meglio crede. Un’apposita giuria valuterà il risultato e premierà il lavoro che riterrà il migliore.

Anche in questo ambito sono stato fortunato: collaborando come volontario al Centro Studi Gobetti di Torino ho iniziato a stendere dei testi da pubblicare sul suo Notiziario e vorrei non avere smarrito nei traslochi quei dattiloscritti pieni di correzioni fatte in inchiostro rosso dalla signora Ada, la vedova di Piero e la madre di Paolo. Li avessi ancora li metterei in cornice. Altri ne arriveranno a darmi un aiuto disinteressato. In un testo per l’editore Garzanti avevo fatto morire a Torino la scrittrice Carolina Invernizio della quale si era interessato Antonio Gramsci nei Quaderni dal carcere. La giovane editor in servizio presso la redazione mi inviò senza commenti una fotografia che mostrava la lapide affissa sul muro di un palazzo di Cuneo che certificava il decesso là avvenuto della «onesta gallina di Voghera» (copyright di Gramsci).

Nei miei anni romani ho avuto la fortuna di mettere mano a sceneggiature (senza poterle firmare poiché ero dipendente della Rai) su incarico di Vittorio Bonicelli. Gli consegnavo il mio dattiloscritto e lui, sistematicamente, per gran parte delle sequenze, si limitava ad amputare testa e coda, salvando solo il corpo della scena. Aveva ragione lui: chi si avventura in quel mestiere tende all’inizio a essere didascalico, perdendosi in presentazioni e in congedi pleonastici che possono benissimo e senza sforzo essere immaginati dallo spettatore. Il 50% del lavoro deve farlo il lettore, diceva Umberto Eco.

Anche George Simenon ha avuto la fortuna di avere una grande editor, la scrittrice Colette, responsabile della pagina letteraria del «Matin», del quale era capo redattore il suo secondo marito Henry de Jouvenel. Citiamo dall’intervista che il giornalista Carver Collins fece a Simenon, pubblicata in Italia nel 1998 da Minimum Fax. Domanda: «Dopo molte settimane in cui i suoi racconti firmati George Sim, sono respinti, arriva il momento in cui Colette vuole conoscerla. Cosa le disse in quell’occasione?» Risponde Simenon: «Mio piccolo Sim, ho letto il suo ultimo racconto... Non ci siamo. Ci siamo quasi ma non ci siamo.

Non si deve far letteratura. Assolutamente niente letteratura. Tolga le belle parole e vedrà che andrà. E io seguii il suo consiglio. Lo faccio tuttora, quando scrivo e soprattutto quando riscrivo». Insiste l’intervistatore: «Che cosa intende per troppo letterario? Che cosa taglia di preciso?» Risposta dello scrittore, da intagliare nel marmo di una lapide da affiggere nell’atrio delle scuole: «Gli aggettivi, gli avverbi e tutte le parole a effetto. Tutte le frasi che stanno lì solo per il gusto della frase. Proprio così: se c’è una bella frase, la taglio». È qui, in questo punto, che si trova la differenza fra uno «scrittore» e un «narratore», come mette magistralmente in evidenza Pietro Gibellini nella sua prefazione alle Prose scelte, l’antologia d’Autore che Gabriele D’Annunzio pubblicò nel 1906, certificando la sua natura di scrittore (sia pure sublime) e non di narratore.