Elogio del televisore, grande vittima della televisione

/ 05.10.2020
di Aldo Grasso

Qui si parla di televisori, non di televisione. Qui si parla di rituali di visione, non di programmi. C’è stato un periodo, settant’anni fa, in cui le famiglie più abbienti, in possesso di un televisore, tenevano corte bandita (storicamente, l’unica parentesi umana nella vita di condominio), i bar erano affollati fino all’inverosimile per seguire una partita di calcio, i cinema vampirizzati dalla tv, le strade deserte, tutti i televisori accesi per vivere in diretta l’avventura della conoscenza. Adesso il televisore si presenta sottile, quasi invisibile, sempre più simile a un computer per funzionalità e convergenza. Adesso i giovani guardano quella che convenzionalmente continuiamo a chiamare televisione su altri device, sul computer o sul telefonino.

Ma quale processo storico ha condotto, alla metà degli anni Cinquanta, allo stabilizzarsi di una cultura di visione pienamente domestica? In che modo la televisione si è trasformata da attrazione pubblica e collettiva in un mezzo di comunicazione saldamente intrecciato all’ideale di domesticità? Quali metafore hanno accompagnato l’ingresso della tv in casa, tra focolare e finestra, bardo e occhio potenziato? Qual è stato il ruolo del servizio pubblico nel guidare questo processo?

La strada è meno scontata e naturale di quanto si potrebbe pensare: in un periodo di grande fermento, in cui si poteva solo intuire che cosa fosse la televisione, anche i modi di guardarla venivano sperimentati attraverso un sistema di «prova ed errore». Abbandonato in qualche generosa pagina di quei wish shop che sono gli atlanti del design, ammassato nei negozi di elettrodomestici, confuso in una candida e smaltata indiscriminazione fra frigoriferi e lavatrici, l’apparecchio televisivo non ha mai goduto di attenzioni specifiche.

Solo qualche frettolosa definizione: scatola magica, nuovo focolare domestico (dove però il «focolare» ben presto stinge in «focolaio»), vincolo familiare fisico, assassino della conversazione domestica (ma quale? ma quando?), oggetto «assoluto» del disegno industriale, strumento di comunicazione. Il televisore è da sempre una vetrina vuota: «vasto assortimento all’interno». Le devastazioni prodotte da molti tristi connubi fra arte e industria, la snobistica volgarità di certi arredatori, gli apprensivi epitaffi sulla scomparsa dell’oralità, non dovrebbero tuttavia far dimenticare che l’apparecchio televisivo è pur sempre oggetto della scienza esatta e luogo di elezione di ogni fantasia, nei suoi aspetti morfologici e nei suoi sviluppi molteplici: eppure quanti confondono ancora il mezzo con il messaggio! Il televisore è il padrone di casa, la televisione solo l’invitata.

Senza televisore non c’è televisione: i fantasmi, le realtà in diretta e i mondi rovesciati alla fin fine sigillano sempre il loro caleidoscopio entro l’ordine immutabile dell’apparecchio televisivo. Quando si dice che la televisione è una finestra sul mondo si dovrebbe aver maggiore considerazione per la finestra stessa. Due avvenimenti hanno strappato la casa, l’abitazione, dall’ordine del naturale per sospingerla nell’artificiale, nelle lande del virtuale: i disegni degli architetti e l’avvento del televisore.

«Il capomastro, il costruttore, ricevettero così un tutore. Il capomastro sapeva costruire soltanto case: nello stile del suo tempo. Ma chi poteva costruire in qualsiasi stile del passato, chi aveva perduto ogni legame con il proprio tempo, costui, sradicato e distorto, divenne il dominatore, lui, l’architetto» (Adolf Loos, Parole nel vuoto, Adelphi, 1972).

Quando non si costruiscono più le case in funzione di nessi concreti (il corso del sole, la vicinanza di un fiume, ecc.) in quel momento, sotto la spinta della «creazione artistica» dell’architetto, ha inizio l’epoca del virtuale, del possibile. La casa diventa un’invenzione fra molte altre: un’invenzione dalle pareti mobili, un teatro casalingo, un fondale per viaggi attorno alle camere (cfr. Witold Rybczynski, Casa. Breve storia di un’idea, Viking Press, New York, 1986).

E, un giorno, la casa accoglie fra le sue suppellettili un televisore. Da oggetto di passatempo e di arredamento, il televisore diventa ben presto un sottile sabotatore delle più consolidate «filosofie dell’arredamento». Senza stile, senza stili, senza legami con lo spirito dell’epoca il televisore diventa il vero centro della casa. Dove si insedia il televisore? Naturalmente, nel punto più indifeso della casa: il soggiorno. Quando la media borghesia scopre la casa e la sua importanza come segno di prestigio, cominciano a consumarsi i nuovi riti proposti dalle riviste femminili. E il punto centrale diventa il soggiorno, quello che i genitori tenevano sempre chiuso. È in questo luogo che la casa da rifugio diventa palcoscenico: delle manie degli architetti, della goffaggine e delle rappresentazioni «sociali» degli inquilini, del predominio del televisore.

Il televisore ha mutato ogni casa nella casa dello Specchio. Il televisore è ancora oggi la porta di ingresso nella realtà virtuale, è il dissolvimento delle pareti domestiche verso paesaggi mutevoli, verso spiragli inattesi.