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Educare nella società del troppo

/ 24.04.2017
di Silvia Vegetti Finzi

A un recente Convegno di Psicologia dell’età evolutiva, con la simpatia immediata che contraddistingue certi incontri tra donne, una partecipante non esita a confidarmi il senso di smarrimento che prova di fronte alle modalità educative adottate dai suoi figli ormai adulti. 

«Sono una professoressa in pensione – esordisce – e benché abbia avuto ben cinque figli, tre femmine e due maschi, ho sempre trovato il tempo per occuparmi di loro, sia dal punto di vista fisico, sia da quello educativo. Ma ora che i primi tre sono diventati a loro volta genitori, mi sento spaesata. Tutto quello che ho messo in pratica con successo, almeno mi pare, non funziona più e, quando esprimo il mio punto di vista (sempre su richiesta), mi sembra di parlare una lingua straniera. Che cosa è accaduto negli ultimi vent’anni?».

Un cambio di secolo innanzitutto, anzi di millennio: uno snodo epocale in cui tutto è mutato e così in fretta da lasciarci frastornati e privi di riferimenti. Difficile enumerare i cambiamenti ma, prima di tutto, porrei le trasformazioni del lavoro. Per le giovani coppie, con uno o due figli, garantire un reddito economico sufficiente per le esigenze familiari è diventato un compito talmente impegnativo da condizionare tutti gli altri. Quando entrambi i coniugi lavorano fuori casa , con orari così lunghi da farli sentire in colpa rispetto alle esigenze dei bambini, cercano di rimediare alla loro assenza colmandoli di cose – mobiletti, giocattoli, vestiti, dolciumi – che simbolizzino il loro affetto. Ma così facendo spengono il desiderio e inibiscono la domanda per cui tutto diventa indifferente e superfluo. 

Poiché amano i lori figli e vorrebbero evitare che soffrano, li tutelano e li proteggono sino a negargli ogni spiraglio di libertà. I bambini di oggi crescono sotto lo sguardo vigile di educatori che programmano le attività, prescrivono il comportamento, escludono qualsiasi alternativa. Ma senza mettersi alla prova, senza tentare e rischiare non si cresce.

Questa è la società del troppo, come simbolizzano i corpi pieni, che colmano ogni fessura, rappresentati da Botero. A uno sguardo generale, che non si smarrisca nella frammentazione dei problemi e dei consigli occasionali, risultano evidenti due considerazioni: quando vogliamo modificare i comportamenti di un bambino, non possiamo svitargli la testa e sostituirla con un’altra, come si fa con una lampadina. Ciò che possiamo fare è cambiare il nostro rapporto con lui. Ma perché qualcosa possa mutare davvero occorre tener presente la situazione complessiva, il contesto in cui il bambino cresce, che non è un dato di fatto immutabile. Teniamo presente che viviamo nella società della fretta, per cui dobbiamo trovare più tempo da dedicare ai nostri figli, che abbiamo paura del futuro per cui si tratta di dar loro fiducia e speranza. Insomma, la prima cosa è lavorare su di noi, diventare genitori consapevoli, competenti, responsabili, cercando di non esagerare nel difenderli dal mondo esterno, di non ergersi ad avvocati difensori contro tutto e tutti.

Il genitore che critica l’insegnante, litiga con l’allenatore, seleziona gli amici dei figli, decide per lui gli sport, le vacanze, l’indirizzo scolastico, gli proibisce di mangiare qualche volta con gli amici cibi non dietetici, agisce indubbiamente per amore. Ma anche l’amore può essere eccessivo.

In anni di crisi la competitività, che anima ogni società, tende a esasperarsi inducendo gli educatori a sottovalutare i desideri, i talenti, le disposizioni dei figli. Temono che, scegliendo corsi di studi letterari o artistici, si troveranno poveri e disadattati. Ma nessuno è infelice come chi fa un lavoro che non gli piace, chi ha dovuto rinunciare alle sue aspirazioni, in altre parole «a non vivere per sopravvivere». Per riflettere insieme, senza precipitare subito nella risposta rassicurante, suggerisco di leggere il bel libro di Daniele Novara e Silvia Calvi: L’essenziale per crescere. Educare senza il superfluo, Mondadori.