Edgar Morin: centenario senza età

/ 12.07.2021
di Luciana Caglio

Lo scorso 8 luglio Edgar Morin ha compiuto cent’anni. È un traguardo che, nell’anagrafe attuale, non rappresenta più un’eccezione. Almeno, alle nostre latitudini, in paesi benestanti, dove la sanità, pubblica o privata che sia, funziona. La Svizzera è del novero e il Ticino vanta addirittura il primato della longevità femminile sul piano nazionale. Tanto che, nelle cronache, questo compleanno a tre cifre è una notizia, per così dire, ricorrente. D’altro canto, questo supplemento di vita, su cui oggi si può contare, giustifica preoccupazioni, per le ricadute d’ordine finanziario, logistico e assistenziale, e soprattutto, per il rischio di decadenza fisica e mentale che rende i grandi vecchi ignari sopravvissuti.

Ne è immune Edgar Morin, per la sua e la nostra fortuna. Nei suoi confronti, abbiamo tutti un debito di gratitudine. Proprio lui impersona, esemplarmente, la figura del senza età. Cioè, una condizione fisica e soprattutto mentale che assicura il contatto permanente con la contemporaneità. Nel suo caso, è la materia prima di una ricerca sul presente alla luce, però, del passato, condotta senza emanare assoluzioni o condanne o cedere al rimpianto. Meglio lo ieri o l’oggi? Non sta qui il problema. Quel che conta, è riuscire a convivere con la propria epoca, attraverso la conoscenza, abbinata alla curiosità, che continua a sollecitarlo.

«Amo conoscere»: inizia così il suo ultimo saggio Conoscenza, ignoranza, mistero (Cortina editore), pubblicato nel 2018, in cui conferma il bisogno e il piacere di cimentarsi con l’ignoto, senza la pretesa di dominarlo. Morin non monta in cattedra. Paradossalmente, è diventato un maestro suo malgrado. Difficile collocarlo in una categoria precisa: associa, infatti, le prerogative del sociologo, del filosofo, dello storico, del critico, amalgamandole. Si potrebbe definirlo l’esploratore di un territorio in incessante mutazione: il nuovo che coglie impreparati, affascina o irrita, e disarma. Come avvenne, nel dopoguerra, con l’arrivo della società di massa, che aprì prospettive frastornanti. La televisione che portava il mondo in casa, il turismo popolare che annientava le distanze, l’industria culturale che produceva intrattenimenti a iosa, i fermenti politici che proclamavano ideologie rivoluzionarie. Persino la celebrità cambiò connotati. Non era più l’esclusiva di regnanti, potenti e talenti consolidati. Spettava anche a campioni sportivi, stilisti di moda, complessi musicali giovanili, attori e presentatori, capaci di bucare lo schermo, insomma gente comune dotata di qualche vago talento e di faccia tosta. Erano gli «Olympiens», i nuovi inquilini dell’Olimpo, come li definì Edgar Morin, nel saggio L’esprit du temps, pubblicato da Grasset nel 1962. Un’autentica primizia, nel settore della letteratura socio-culturale, che s’impose sul piano internazionale, alla stregua di un bestseller. All’inatteso successo aveva contribuito sia il linguaggio accessibile, da precursore della comunicazione, sia l’indipendenza nei confronti delle ideologie dominanti. «Nazismo e anche bolscevismo sono falliti» osò dichiarare in pieno ’68. 

Ciò non significa astenersi, isolandosi nella propria gabbia, per sentirsi protetto. Anzi, in un’epoca di conquiste scientifiche e tecnologiche prodigiose, Morin avverte più che mai un’esigenza anche d’ordine morale: appropriarsi del cambiamento senza lasciarsi sopraffare, consapevoli dei limiti del pensiero razionale e, non da ultimo, del mistero: «Ho forte il senso dell’invisibile nascosto dietro ciò che vediamo».

Per gli addetti ai lavori dell’informazione e dell’educazione, Morin rimane un punto fermo, un prezioso aiuto professionale. Nel corso dei decenni, dopo averlo letto e citato tante volte, ho avuto la fortuna di ascoltarlo, dal vivo, a Lugano, nel 1990, durante il simposio per il trentesimo della Fidinam, dedicato al tema «Rapporti tra cultura, storia, contemporaneità». Morin in persona coincideva con le sue pagine e i suoi pensieri. Affabile, niente parolone oscure, perché «la conoscenza implica chiarezza». E deve trasmettere cordialità, persino senso dell’amicizia. Il suo ciao, lanciato agitando la mano, fuori dal finestrino del taxi, mentre lasciava Piazza Indipendenza rimane un gran bel ricordo.