Ebbri, unti e innamorati

/ 11.02.2019
di Cesare Poppi

Ci racconta Cicerone nei toni un po’ disgustati che gli si addicono che nelle giornate comprese fra il 13 ed il 15 febbraio gruppi di giovani scorrazzassero correndo in senso antiorario fra il Palatino ed il Foro della Roma antica in condizioni disdicevoli che il Nostro descrive come «nudus, ebrius, unctus et concianatus» – nudi, ebbri, unti e paonazzi dall’eccitazione. Si trattava di giovani scapoli appartenenti alle famiglie più antiche dell’urbe – i Quinctiliani ed i Fabii. A queste due confraternite ne venne aggiunta, nel 44 a.C., una terza, quella dei Juliani, in onore di Giulio Cesare. Questa ebbe come primo Magister niente di meno che Marco Antonio. Fu abolita ai tempi delle guerre civili per poi essere resuscitata da Ottaviano Augusto nel contesto della restaurazione della religione romana arcaica.

I personaggi in questione erano noti come Luperci, e la festività che li vedeva protagonisti è passata alla storia come Lupercalia. Si tratta di una pratica rituale arcaica dai contorni ancora poco chiari. Certamente affondava le sue radici nella preistoria di Roma, quando l’economia prevalente era ancora di natura pastorale e pare avesse un significato di purificazione dalle impurità negative dell’inverno in vista dell’incipiente primavera. Si credeva che in questo mese le anime dei morti ritornassero sulla terra e dunque occorresse placarle mediante offerte ed atti penitenziali condotti col tramite di un oggetto mai meglio identificato dalle fonti scritte chiamato «februum» – da cui febbraio. Secondo Ovidio il termine sarebbe stato di origine etrusca, ma la cosa è controversa perché linguisticamente «februum» è termine indoeuropeo connesso a pratiche di purificazione e penitenza laddove, com’è noto, l’etrusco era una lingua che con l’indoeuropeo aveva ben poco a che fare. Insomma: incertezza e una certa confusione circondano uno dei più misteriosi rituali della Roma antica.

Ma c’è di più: secondo la mitologia degli antichi latini il rito avrebbe a sua volta radici nella Grecia arcaica, dove la festa del Licaio Arcadico celebrava la figura del dio Pan nella forma di lupo (lycos in greco, lupus in latino). Secondo lo storico Giustino – ma siamo già nel II secolo d.C. – una statua di Fauno Lupercus (la versione latina dell’antico Pan greco) sarebbe stata custodita nella caverna del Lupercal nella forma di un pastore nudo. Il Lupercal, a sua volta, era una grotta che si è creduto identificare negli scavi del 2007 ad una quindicina di metri di profondità al di sotto del Palazzo di Augusto sul Palatino: qui, secondo la leggenda, la Lupa avrebbe allattato Romolo e Remo e qui sarebbe stata la sede dei Luperci. Alla vigilia del festival, dunque, le confraternite si ritrovavano nella caverna. Qui, sotto la supervisione del capo dei sacerdoti del tempio di Giove, venivano sacrificati un cane ed un montone. Il sangue delle vittime veniva gettato addosso ai Luperci i quali cominciavano a ridere e a scherzare. Consumato il banchetto sacrificale preparavano fruste con le pelli delle vittime e poi si scatenavano – nudi, sovreccitati ed ubriachi – per le vie di Roma frustando senza pietà tutti coloro che incontravano. Matrone e fanciulle erano le vittime preferite: si riteneva infatti che una buona sferzata da parte dei Luperci ne garantisse fertilità e parti senza problemi.

Così andarono le cose per secoli: alla persistenza della pratica si accompagnava l’oblio progressivo della sua storia e delle sue ragioni – o così almeno fino al quinto secolo d.C. quando il cristianesimo ormai trionfante soprattutto in ambiente urbano decise che fosse ora di finirla con una pratica folclorica oramai obsoleta. Ancora nel 354 i Lupercalia compaiono in un antico calendario fianco a fianco alle festività cristiane ormai egemonizzanti. Per quanto un editto imperiale del 391 abolisse ufficialmente tutte le feste pagane, i Lupercalia furono duri a morire: Papa Gelasio (494-496) tornò all’attacco contro un Senato dove molti ancora ritenevano che fossero essenziali per il benessere di Roma. «Ormai i Lupercalia sono celebrati solo dalla feccia della società romana – tuonò il Pontefice – e se proprio ritenete che la festa debba continuare, andate voi stessi a correre nudi e ubriachi per le strade che ci divertiremo proprio a prendervi in giro!». Poi lo stesso Gelasio ebbe la pensata vincente: se i Lupercalia sono la festa della fertilità li trasformeremo nella festa dell’amore e degli innamorati. Detto e fatto: San Valentino era un santo martire dal profilo storico controverso e misterioso almeno quanto i Lupercalia. Di lui la leggenda diceva che avesse pagato la dote di matrimonio ad una fanciulla onde prevenire che dovesse consegnarsi al meretricio.

Il 14 febbraio, dunque, non fu mai più lo stesso: ebbri e sovreccitati sì – ma di sacrosanto amore cortese e cristiano.