Privilegio-paradosso delle nostre democrazie, dove c’è posto per il tanto che, poi, diventa il troppo. Succede nella politica con partiti sempre più divisi in correnti contrastanti e con movimenti di piazza seducenti e inconcludenti. Succede nella cultura con manifestazioni, magari importanti, che però, sovrapponendosi, si annullano. Ma, soprattutto, succede nella beneficenza con le collette che, lungo il dilatato periodo natalizio, attraverso una pubblicità cartacea e informatica senza limiti, si accumulano a valanga. Dalla quale, come avviene materialmente, in montagna, si cerca una via di scampo. Una reazione spontanea, a prima vista giustificata, di fronte a un cumulo di volantini, fascicoli, con annessa cedola di versamento e a volte una penna o un calendarietto omaggio. Ora, e qui sta il vero problema, diversamente da molti altri messaggi commerciali, le collette non sollecitano la disponibilità ad acquistare, per noi, bensì a cedere qualcosa di nostro, da destinare ad altri. Per giunta, si tratta di altri, spesso, sconosciuti, estranei, stranieri, con i quali non si avranno contatti diretti e dai quali il dono, forse, non otterrà nessun riscontro. Ne deriva un senso di fastidio, che abbinato all’ecologismo, per via dello spreco di carta, potrebbe sembrare virtuoso. Se, invece, non diventasse indifferenza, chiusura, addirittura sospetto verso richieste d’aiuto, considerate invadenti, rivolte persino a obiettivi speculativi. Il complottismo è sempre dietro l’angolo.
Chissà dove andranno a finire tutti quei soldi? L’ interrogativo è ricorrente, anche nella patria di Henri Dunant, di Pestalozzi, di istituzioni storiche quali Pro Infirmis, Pro Senectute, Pro Juventute, Caritas, Helvetas, e, negli ultimi decenni, i gruppi di specialisti e volontari che, sotto l’egida della Direzione dello Sviluppo e della Cooperazione (DSC), portano avanti progetti concreti: acqua, scuole, ospedali, promozione della donna, ecc. Ne rende puntualmente conto la rivista «Un solo mondo», oltretutto gratuita, svolgendo una preziosa funzione informativa: dati e statistiche, che confermano fatti, da contrapporre a percezioni e pregiudizi, che, tuttavia, continuano a incidere sulle sorti delle collette vittime dell’eccesso. Di certo, l’ambito è sovraffollato: occorre far ordine. Un’urgenza captata, due settimane fa, dal domenicale del «Tages Anzeiger», che ha affrontato il tema sotto vari aspetti: pratico, morale, psicologico. Indicando, per cominciare, le organizzazioni sicure: quelle che, con il marchio Zewo, garantiscono efficienza, trasparenza, solidità. Altro suggerimento ragionevole, concentrare l’offerta su un solo obiettivo, anziché suddividerlo in oboli sparsi. Stando agli esiti ottenuti, e contrariamente a una diffusa convinzione popolare, sono i grandi enti nazionali e internazionali, accusati di sperperi burocratici, a meritare fiducia.
Non da ultimo, però, il cuore, cioè sentimento e simpatia, hanno una sempre una parte insostituibile. Donare rimane un modo per esprimere affetto e vicinanza a cause, paesi, persone che ne hanno bisogno. E anche che ci piacciono. A questo punto, il gesto allarga la portata: diventa un «do ut des», una forma di reciprocità, indefinibile e non quantificabile. «La generosità ci rende più felici», parola di specialista: Philippe Tobler, autore di un trattato di neuro-economia. Modestamente, da profani, ce n’eravamo accorti pure noi.
Per riprendere l’interrogativo iniziale «E tu di che colletta sei?» è il caso di vedere l’abbondanza di collette anche alla stregua di un privilegio. L’opportunità di scegliere liberamente, concedendosi magari qualche sfizio. Mi capita, oso confessarlo, di versare qualche franco alla Fondazione Cani San Bernardo, per una sorta di capricciosa simpatia da non cinofila. Più che un dono, un acquisto, mi arrivano oggetti e immagini deliziosi. Perché, infine, anche la colletta, ha risvolti di business, socialità e mondanità. Un tempo a Lugano, si parlava di «dame della carità», circondate da un alone elitario. Oggi, non si chiamano più così, ma, al di là delle facili ironie, i ricchi che danno rappresentano sempre una risorsa, sia pure praticata in una cornice salottiera. E c’è da chiudere un occhio, se poi lo fanno sapere, forse troppo rumorosamente. L’importante è che lo facciano.