La foliazione dei due quotidiani ticinesi superstiti è sempre più esile. La diagnosi è nota: diminuzione della pubblicità (che si è trasferita altrove, nell’universo virtuale), calo delle vendite e degli abbonamenti, rarefazione dei lettori assidui, ossia delle generazioni fedeli alla testata, il più delle volte trasmessa per via ereditaria. Il fatto di ricevere ogni giorno e puntualmente il giornale al proprio domicilio è stato sempre un salvagente per gli editori: un servizio certo, garantito dalla Posta (a sua volta sinonimo di affidabilità). In tante famiglie la lettura del quotidiano è ancora un rito irrinunciabile, l’hegeliana «preghiera del mattino». Ma ormai le schiere degli affezionati si stanno assottigliando, e la consueta preghiera si sta pian piano trasformando in una mesta orazione funebre. Al di là delle motivazioni personali, l’annunciata partenza di Fabio Pontiggia (dal «Corriere del Ticino») e di Matteo Caratti (da «LaRegione») assume i tratti di un passaggio d’epoca, spia di un distacco da un prodotto che negli ultimi anni ha mutato fisionomia e funzione nell’opinione pubblica.
Posta la diagnosi, occorre por mano ad una terapia, ovvero individuare un’uscita di sicurezza nell’intrico dell’informazione online, senza rinunciare all’amata carta. Per tutelare l’organico redazionale si è dapprima cercato di allestire siti in cui finiva in rete una parte cospicua della produzione giornalistica, riservando tuttavia l’intero corpus alle rotative. L’esperimento non solo non ha dato i frutti sperati, ma si è rivelato controproducente, instillando nei lettori l’idea che di un’informazione a pagamento si potesse fare tranquillamente a meno: bastava e avanzava quanto appariva sui piccoli schermi dei cellulari. Ora le strategie sono mutate, anche «Il Caffè» esige un tributo nella sua versione online, ma ormai sembra impossibile recuperare la platea migrata sulle piattaforme multimediali, una nebulosa tanto fantasmagorica quanto imperscrutabile. Solo le vecchie generazioni rimangono aggrappate alla tradizione.
Fosco tuttavia appare non soltanto l’orizzonte aziendale, con i posti di lavoro cancellati: le ripercussioni riguardano anche la qualità della nostra democrazia, lo stato di salute del dibattito politico, le sorti del pluralismo. A lungo ha destato meraviglia la ricchezza giornalistica del nostro cantone, considerata per oltre un secolo un’anomalia, un’eccezione, un retaggio ottocentesco, quello spettacolo gladiatorio che l’icastico Emilio Motta – uno dei primi studiosi ad occuparsi del fenomeno – definiva il regno delle chiacchiere: «A che servirono tanti fogli ticinesi? Caterina, gatti, gatti / Assai, ciance, e pochi fatti». Il miracolo si protrasse fino agli anni 80 del secolo scorso, allorché, nello stupore generale, le testate giornaliere – con la fondazione del «Quotidiano» – divennero sette. Ma fu l’ultima stagione, l’ultimo fuoco d’artificio di tanta lussureggiante offerta. Qualche anno dopo, nel 1992, le luci si spensero con la sparizione dalle edicole degli organi di partito.
Da ultimo si riteneva che, date le proporzioni del nostro cantone, due quotidiani (tre, se consideriamo anche 20 minuti), sarebbero stati più che sufficienti. Uno di centro-destra e uno di centro-sinistra, ad occupare un perimetro fattosi politicamente assai stabile, molto prossimo al bipolarismo. Prova ne è la difficoltà a strappare lettrici e lettori al campo avverso, o a guadagnarne di nuovi.
Un simile confronto ha funzionato per un po’, ma ora geme sotto i colpi della grande rete. Il passaggio della tromba d’aria digitale ha disboscato la selva cartacea con una violenza inaudita. Non sappiamo come finirà. Ma già ora constatiamo un inaridimento del dibattito politico e civile, l’archiviazione dei patrimoni ideali, la marginalizzazione delle opinioni non allineate con il pensiero dominante.
Una volta c’erano in Ticino troppi quotidiani, è vero. Ma ora sono troppo pochi, e di questo passo c’è il rischio di incamminarsi verso l’estinzione, con preoccupanti conseguenze per la nostra democrazia, la sua vitalità e vivacità. Anche i politici, e non solo i giornalisti, dovrebbero attivarsi per salvare il pluralismo della stampa e la sua indipendenza dalle centrali del potere. Ma forse è illusorio pensarlo in un paese consociativo come il nostro, un teatro in cui la vicinanza tra i singoli portatori d’interesse e tra i partiti al governo (ben quattro) impedisce una reale autonomia delle redazioni e una netta divisione dei ruoli.