Ne aveva scritto il grande Ibn Khaldun nel suo Muqaddimah (Prolegomeni) che rappresenta il culmine della storiografia islamica premoderna. Era il 1377 e di Timbuktu si cominciava a parlare – o meglio a favoleggiare – in conseguenza della crescente importanza del centro commerciale per il traffico di merci transahariano. Si calcola che alla fine del IX secolo le rotte occidentali che scendevano dal Marocco attraverso l’attuale Mauritania fino a quel che diventerà il Senegal e il Mali fossero già ben stabilite: in due secoli l’Islam aveva marciato non tanto sulle punte delle lance e sul filo delle spade, ma sui tendini di quella formidabile arma da guerra commerciale che era il cammello – forse il mezzo di trasporto più eco-friendly mai inventato – per poi proiettarsi sul mare verso l’Est fino alle favolose Isole delle Spezie, quelle Molucche dove gli arabi sorseggiavano tè in lussuosi empori da favola ben prima che il povero, grande Magellano ci arrivasse esausto (e ci perdesse la vita) con la sua fiera spedizione ridotta a poco più di uno scassato pedalò di marinai stanchi, ammutinati e ubriachi.
Gli arabi e la loro manodopera indigena – i Tuareg – scambiavano lastre di sale dalle miniere sahariane contro l’oro scavato in abbondanza e comodamente nella zona subsaheliana. Sale e cavalli berberi dal Marocco. I cavalli marocchini – destinati a diventare capostipiti dei purosangue inglesi che purosangue non sono come non lo è nessuno al mondo – avevano permesso l’espansione prima dell’impero del Ghana (ca. 300-1076) per poi rifornire gli arsenali dei primi imperatori del Mali (1235-1645).
Fra questi spicca il grande Mansah Musah, che regnò fra il 1312 ed il 1337. Musulmano figlio di Abubakar II, sapeva scrivere in arabo e cercò di diffondere l’Islam fra la nobiltà lasciando libera scelta al popolo: geniale instrumentum regnii destinato a durare per secoli in tutta l’Africa subsahariana tale per cui – per dirla brutalmente ma tant’è – la Nobiltà prega Allah, il Popolo i Feticci e la pace è assicurata almeno fino a Boko Haram. Mansah Musah fu descritto come l’uomo più ricco del mondo: fra il 1324 e il 1326 si recò – così scrive Ibn Khaldun – in pellegrinaggio alla Mecca con un seguito di 60’000 fra oligarchi e guardie del corpo. Seguivano 12’000 schiavi carichi ciascuno di quattro libbre d’oro in lingotti e ottanta cammelli carichi ciascuno dalle cinquanta alle trecento libbre di polvere d’oro che veniva donato ai poveri incontrati lungo il cammino. Fake News? Resta da provare. Sta di fatto che in quegli anni il valore del Fiorino d’Oro Fiorentino, moneta allora dominante in tutta Europa, fu soggetto a severa inflazione. E nessuno capì perché fino a secoli dopo.
Durante il suo pellegrinaggio fondò anche diverse Madras (licei/università), ma la sua attenzione di leader attento alla «cultura» fu soprattutto diretta al potenziamento della Madras di Timbuktu. Sotto il suo regno questa divenne centro importante della cultura islamica. Mansah Musah era ostile agli ebrei e alla loro cultura, probabilmente perché i gioiellieri ebrei immigrati della diaspora erano in grado di produrre beni finiti che facevano concorrenza all’oligarchia nobiliare locale che invece poteva solo esportare oro in purezza. Fattostà che Timbuktu vide la sua fama di capitale culturale crescere nel mondo islamico nella misura in cui si chiudeva sempre più in quanto città sacra agli ebrei (che furono probabilmente espulsi) e al loro cristiano impuro sottoprodotto.
Il primo cristiano occidentale a raggiungere quella che era diventata una Utopia, una sorta di Atlantide o Paradiso perduto, mortale e inaccessibile fu il Maggiore Alexander Gordon Laing (1794-1826), scozzese. Pur travestito, riuscì a non farsi sgamare per cinque settimane. Fu ucciso da predoni Tuareg al momento di lasciare la città.
Il secondo europeo a raggiungere Timbuktu – e primo a ritornarne vivo – fu l’esploratore francese René Caillie. Di famiglia povera ma affascinato da Robinson Crusoe decise di diventare «esploratore» secondo le modalità che gli Sponsor ora come allora offrivano a chi ci mettesse la ghirba – mettiamola così. Niente di peggio di quanto il buon René si trovò davanti il 21 aprile del 1828: «Avevo immaginato la grandeur e la ricchezza di questa città di tutt’altra maniera: presenta, come prima cosa solamente un ammasso di case in terra mal costruite; ovunque si scorgono solo degli immensi spazi di sabbia, dal bianco tendente al giallo, della più grande aridità».
René Caillie fu il primo bianco/cristiano a uscirne vivo. Sic transit.