Piace pensare che i mesi invernali di una volta fossero più rigidi, più crudi, ma anche più spensierati. Le nevicate, anche quelle abbondanti, non suscitavano apprensioni e allarmi fuori misura, come invece accade oggi dopo ogni bollettino meteo. Era inevitabile che l’inverno arrivasse, era fatale, e perciò ci si preparava adeguatamente. Si era attrezzati ad affrontarlo. Ecco per esempio quanto scrive Giovanni Orelli nel capitolo «inverno» che apre L’anno della valanga (1965): «C’è chi guarda la prima neve senza odio o timori dal limitare della casa, o da in cima a una scala di pietra o da dietro i vetri di una finestra, scostando una tendina, o da sotto l’ala di un tetto».
Certo, c’era il rischio valanghe, e Airolo ben ricorda le sue disgrazie, come pure la val Bedretto, di cui si dice conosca solo due stagioni: un inverno lungo e un inverno breve. E per rimanere in tema, Altanca e la Leventina non hanno mai dimenticato la sciagura del 6 dicembre 1894, allorché sei persone perirono annegate attraversando il Ritom con un carico di legna. Una tragedia poi ricordata da Alina Borioli nei dolenti versi di Ava Giuana, in cui la poetessa elencava altri incidenti, altre sventure: chi è mai tornato dalla montagna («smergiüt»), chi è rimasto assiderato sulle cime («sgiarei sü lè pai scim»), chi è rimasto sotto le slavine («rastei sott ai lüinn»), e, appunto, chi è annegato sotto la crosta gelata («neghei sott al gescion»).
Eppure la stagione fredda poteva anche esserti amica, perché introduceva nella giornata una pausa, una sospensione, la possibilità di rallentare il ritmo e di volgersi ad altre attività, manuali e intellettuali. L’inverno assumeva così varie facce.
Era principalmente la stagione del candore, di cumuli bianchi lucenti al sole, di guance arrossate e incise dalla tormenta (il «küss»), di arti intirizziti, di nasi gocciolanti, di tosse e catarri. Ogni pozza ghiacciata diventava una pista di hockey, ogni strada una rampa affollata di slitte. Una stagione brulicante di esperienze personali e di visioni oniriche sulle diverse fogge che i fiocchi assumevano nel corso della giornata.
Era la stagione fredda per antonomasia, dei ghirigori disegnati dal gelo sui vetri sottili delle finestre. Le fonti di calore, alimentate dalla legna raccolta e sminuzzata in autunno, non bastavano a riscaldare l’intera casa; i corridoi e i locali meno frequentati rimanevano gelidi.
L’inverno era poi la stagione dell’attesa, dell’avvento, delle novene, della preparazione al Natale; un ciclo che si concludeva a gennaio con Capodanno, i re Magi e l’Epifania, una sequela di feste che infondeva allegria pure nelle famiglie che non conoscevano altro passatempo che il lavoro dalle «stelle alle stelle». Come osserva la medievista Chiara Frugoni parlando del suo villaggio natale, Solto nella Bergamasca: «la pratica religiosa, condivisa dalla comunità, imprimeva una forte dirittura morale o almeno un profondo terrore dell’Aldilà, pur chiudendo perentoriamente inquietudini e pensieri. Si viveva nella miseria, quasi solo per sopravvivere, ma i bambini erano liberi».
L’attesa portava con sé il raccoglimento, la meditazione, il parlottio sommesso accanto ad un fuoco che restava acceso tutto il giorno; una disposizione d’animo favorita dalle funzioni religiose, ma anche da atmosfere uniche, fatte di odori e profumi, di segatura e trucioli, di aghi di conifere e muschio, di colori e canti, e anche di qualche quadretto di realismo magico, come l’improvvisa apparizione al fondo del bosco di cervi e caprioli alla ricerca di cibo.
Sarebbe errato credere che l’inverno, per i nostri antenati, si risolvesse in una stagione morta, dominata dall’inattività. Nessuno stava in ozio nelle case e nelle legnaie. Le donne si occupavano della prole, dei lavori domestici, del bestiame minuto (galline e conigli) e anche del maiale; gli uomini, dopo la stalla, potevano lavorare il legno, oppure intrecciare canestri. Come ci ricorda Mario Rigoni Stern nei suoi Inverni lontani, erano attività diffuse in tutto l’arco alpino: «Persino quando la neve arriva troppo presto e poi si dilunga tanto che nemmeno i lupi trovano più da mangiare, il domestico maiale ci permette di restare al caldo della casa guardando dalla finestra i voli dei corvi, o di restare nella stalla a intrecciare vinchi, a far canestri, a lavorare le assicelle di legno ben stagionate per costruire mastelle e secchie, mulinelli e arcolai, a impagliare sedie: lavori che sempre facevano i nostri contadini-artigiani». Nevi di una volta, che forse non torneranno più.