Chi legge la NZZ si sarà accorto. Da qualche settimana il quotidiano zurighese ha lanciato la sua nuova campagna marketing rivolta sia ai lettori svizzeri che a quelli tedeschi. Anzi forse più ai secondi visto che le strategie di espansione sul mercato tedesco sono note. Ogni giorno il giornale è avvolto da una copertina diversa. Il messaggio è il giornalismo e tutto ciò che gli ruota attorno. Mi ha colpita l’immagine con l’uomo di spalle dal ciuffo biondo con indosso una tuta carceraria arancione e una grande P sulla schiena che sta per prisoner (prigioniero). A tutta pagina campeggia la frase Look to the future. Sarà Trump? Forse, ma a lasciare di stucco è piuttosto il nome dell’artista che non solo firma la copertina ma l’intera edizione speciale. A lui è quasi interamente dedicato il Feuilleton con una lunga intervista. Trattasi dell’artista americano Julian Schnabel. «L’arte non conosce crisi», titola l’articolo in prima pagina e racconta quanto Schnabel e la NZZ siano un bel duo: entrambi si schierano apertamente e sono indipendenti. Ma se l’arte non conosce crisi, il giornalismo sì.
Chissà quanto sarà costata questa operazione e se attirerà nuovi lettori. Di certo non basta a trattenere i giornalisti di razza che hanno fatto della NZZ la testata autorevole che tutti conosciamo. Rainer Stadler 61 anni ha lasciato il giornale dopo 31 anni di onorato servizio, come osserva lui stesso in un’intervista su persoenlich.com, esattamente metà della sua vita. Dice di essere andato via per sua scelta. Nell’autunno del 2018 gli hanno tolto la responsabilità della pagina settimanale sui media e per sua stessa ammissione anche nella sua rubrica In Medias Ras in vita dal 1989 non aveva più la facoltà di scrivere liberamente. Sintomatico dei tempi che viviamo è pensare che Rainer Stadler alla sua veneranda età, poco prima della pensione, abbia lasciato un’istituzione giornalistica come la NZZ e ora lavorerà a metà tempo per la testata digital only Infosperber: «mi hanno fatto una buona offerta». Cose da non credere. O forse sì. Non vuole parlare delle divergenze tra lui e la proprietà, dice nell’intervista, ma ammette che è difficile parlare liberamente di media oggi in Svizzera. C’è una forte concentrazione mediatica, di fatto esistono ormai soltanto quattro grandi realtà che insieme alla SSR dominano il mercato svizzero e influenzano il discorso pubblico: CH Media, TX Group, Ringier e NZZ. Dunque scrivendo di media è difficile non pestare il piede a qualcuno, compreso quello del proprio editore. Certo i conflitti di interesse esistevano anche prima ma ora si sono accentuati così come la crisi mediatica che accende ulteriormente la questione.
I media non se la passano bene e di questi tempi cala la soglia di tolleranza nei confronti delle voci non allineate. Fa eco a questo pensiero la brusca interruzione del rapporto con l’editorialista Milosz Matuscheck, da sei anni sulla NZZ si occupava dell’analisi di questioni e fenomeni sociali, finché ha pensato di occuparsi delle manifestazioni pacifiche a Berlino dei negazionisti del Covid. Nel pezzo oltre a sollevare l’ipotesi che alla fine questi idioti del Covid (Covididioten), stando alle statistiche di inizio settembre, potessero avere ragione, sottolinea come i media mainstream, la polizia e la politica tendano a definirli, sminuendoli, un gruppo di idioti e di estremisti di destra. La questione si è fatta più complicata quando l’articolo è stato ripreso su un altro sito. Pensare che nella sua campagna marketing il giornale si pregia di differenziarsi dagli altri media tedeschi perché promuove un dibattito culturale aperto. Andando oltre il caso NZZ, il problema della concentrazione mediatica è tangibile anche alle nostre latitudini.
Resta il fatto che oggi rincorrendo nuovi pubblici molto spesso si perde di vista la propria identità e si sacrifica la qualità della propria testata. Ci sono i tagli, è vero, giustificati dal calo delle entrate e delle risorse. Ma quando serve investire, ad esempio in una costosa campagna su carta e digitale, i soldi ci sono. Le campagne possono essere molto belle ma passano. Il giornalismo invece resta, in teoria, e per essere all’altezza deve poter contare su professionisti capaci. Cosa succede invece se abbandonano il vascello o se l’azienda quando vanno in pensione non li sostituisce? Facile parlare di qualità ma in giro se ne vede sempre meno.