Nomen omen: proprio l’autore di Delitto e castigo, capolavoro della letteratura mondiale, rappresenta, come icona simbolica, l’alto livello della cultura russa, di ieri e di oggi e nei più svariati ambiti. Nulla da contestare, figurarsi. Ciò che, invece, sconcerta è l’uso che se ne sta facendo, in questa strana guerra. Se ci ha risparmiati sul piano materiale, ha però inciso sulle mentalità, sui sentimenti o risentimenti, risvegliando vecchi fantasmi, nostalgie ideologiche comprese. Ecco che nei confronti della Russia riemergono le simpatie da parte di ex militanti sul fronte della guerra fredda, schierati con l’est sovietico e contro l’ovest americano. E adesso, senza dichiararsi apertamente dalla parte di Putin, volto impresentabile, mettono in guardia dalla demonizzazione della Russia ricorrendo all’arma della cultura, come se fosse una garanzia di buon governo e l’esclusiva di quel grande paese, sin dall’epoca zarista. E poi proseguita con l’avvento dell’URSS, come dimostra lo stesso Stalin che, a modo suo, amava la cultura, sempre che l’artista gli andasse a genio. Non durò a lungo la predilezione per il compositore e pianista d’avanguardia Dmitri Shostakovich, poi condannato per deviazionismo nel 1948. Una sorte che spettò a una folta schiera di celebrità.
Insomma, riabilitare l’URSS, perché ha alle spalle un bagaglio culturale ammirevole, non deve far dimenticare i gulag. Alla stessa stregua, la Germania di Hitler rimane pur sempre quella di Kant, Bach e degli artisti innovatori del Bauhaus, costretti a emigrare negli Stati Uniti. E qui, citando questo nome, si tocca un punto fermo: il chiodo fisso dell’antiamericanismo. Gli eventi in corso l’hanno rilanciato. Mentre si attenua la commozione spontanea di fronte alle sofferenze e alle distruzioni vissute ormai in diretta, grazie a testimoni in loco, si fanno i conti con le cause, le responsabilità del disastro: di chi la colpa? Siedono in prima fila, sul banco gli imputati NATO e USA, mentre lo stesso premier Zelensky perde consensi.
L’epoca è volatile, sul filo di mode che non concernono soltanto beni di consumo, divi e svaghi, ma correnti di pensiero, a volte insensate, che provengono proprio da laggiù. Clamoroso il caso della cancel culture che, da decenni, imperversa nelle università diffondendo un messaggio dagli effetti aberranti. Per migliorare il mondo attuale bisogna eliminare tutti quelli precedenti, civiltà che hanno lasciato segni, presi di mira da rivoluzionari che si battono per il nulla, nel senso letterale del termine. E così si distruggono statue, dipinti, libri, insomma le testimonianze di secoli di storia da buttare. Ora, paradossalmente, la guerra ha aperto un nuovo campo di battaglia ai cancellatori che stanno dilagando in Europa, dove si assiste al fenomeno «Censura e castigo», come titola «il Foglio», quotidiano italiano fuori dal coro. Nell’edizione del 28 marzo scorso, documenta su più pagine le conseguenze dell’assurda «caccia al russo» che colpisce manifestazioni culturali ad ampio raggio. Festival cinematografici, concerti, mostre d’arte, conferenze, lezioni universitarie, e via enumerando eventi in cui i protagonisti sono di origine russa e come tali condannabili. E come sempre succede in operazioni del genere si rischia persino il ridicolo. Fra le vittime figurano russi dichiaratamente ostili a Putin. Ciò nonostante, quest’inattesa russofobia ha attecchito in nazioni fieramente democratiche: Inghilterra, Danimarca, che ha interrotto i rapporti con l’Ermitage di San Pietroburgo (non posso fare a meno di ricordare che ospita un ritratto di Vinicio Salati, opera di Otto Dix che ho visto e fotografato). Anche in Svizzera, a Ittingen è stato annullato il concerto del pianista Selim Abdelmoula, di origini russe.
Parafrasando il nostro titolo, anche Putin non c’entra. Sta di fatto che, se la pandemia non ci ha reso migliori, come molti speravano, neppure la guerra ci riesce. Intanto, però, l’accoglienza profughi sta rivelando un Ticino generoso e senza pregiudizi.