Ci sono le donne e gli uomini, gli svizzeri e gli stranieri, poi ci sono gli anziani, i giovani anziani e, naturalmente, i giovani e i bambini. Potrei continuare a lungo, citando altre possibili categorizzazioni identitarie che parlano di noi.
Categorizzare è un esercizio necessario del pensiero, un compito richiesto alla conoscenza per superare il relativismo insignificante del caso particolare, quello che appunto afferma che «dipende» dai casi, dalle situazioni. Certo, si può partire proprio dall’osservazione, dall’esperienza di situazioni particolari, con tutte le incertezze che ciò comporta, come ricorda la famosa storia dell’apparizione di un cigno nero che mette in crisi la definizione classica della bianchezza dei cigni. Sono i limiti del procedimento induttivo, perché c’è sempre la possibilità che un fatto nuovo faccia crollare le nostre pretese di aver finalmente compreso la realtà.
Per evitare questi inconvenienti ci si può affidare a definizioni che hanno il merito di offrire fondamenti più sicuri ai nostri ragionamenti ma che espongono tuttavia il pensiero al rischio di rinchiudersi dentro vere e proprie gabbie interpretative. Le definizioni generali mettono ordine nel pensiero e nel discorso ma rischiano di imprigionare l’esistente dentro visioni rigide e rischiano pure di aprirsi ad una prospettiva scivolosa, tendente al pregiudizio. È questo che capita quando pensiamo e raccontiamo l’umanità secondo categorie di età, di nazionalità, o secondo altre possibili forme di appartenenza in cui è necessario essere riconosciuti.
Viene da chiedersi allora se questi meccanismi del pensiero non siano un ostacolo al bisogno di comprendere davvero la complessità dell’esistente, le molteplici forme del nostro abitare la vita, le molteplici forme di appartenenza che, nel nostro vivere e convivere, si intrecciano e si contaminano tra di loro. Le categorie identitarie generano rappresentazioni culturali di ciò che siamo, e di conseguenza anche modelli predefiniti di comportamento, necessari per il riconoscimento sociale, ma in cui anche noi, in prima persona, siamo sollecitati a riconoscerci. Possiamo ben chiamarle gabbie culturali. L’effetto di queste gabbie identitarie, di cui sopravvivono ancora molte tracce, lo si è visto bene all’opera nella storia delle donne.
Oggi è la volta dei giovani: si è parlato tanto dei problemi dei giovani durante la pandemia e si parla sempre più di violenza giovanile. Anche loro sono pensati dentro generalizzazioni identitarie in cui si moltiplicano i luoghi comuni, quando non addirittura i pregiudizi. Anche loro sono oggetti del solito meccanismo del pensiero: le donne sono state pensate dagli uomini, loro, i ragazzi, lo sono da chi giovane non lo è più. E ciò perché, da sempre, la diversità viene misurata rispetto a un modello ideale. Si vuole spiegare, capire, ma intanto si giudica. È una vecchia storia, ben radicata nella nostra civiltà.
Basterebbe ricordare Aristotele quando descrive la donna nel suo essere diversa dall’uomo e, misurandola rispetto a lui, ne stabilisce un’identità sempre mancante. Così, anche il tema fondamentale dell’educazione dei giovani quasi sempre viene affrontato pensando già all’adulto che diventerà. Da Platone a Rousseau, a Leopardi e oltre, possiamo imbatterci in tante diverse rappresentazioni dei giovani e della giovinezza. Nel mare magnum di tanti sguardi differenti corriamo davvero il rischio di naufragare e di non riuscire a dire qualcosa di sensato su che cosa significhi essere giovani, o meglio essere giovani oggi.
Oggi, sì, perché la prima cosa da fare è cambiare la domanda identitaria che ci perseguita da sempre. Invece di chiederci chi siamo? Proviamo a chiederci dove siamo?
Può diventare allora interessante parlare dei giovani chiedendosi dove sono, in quale mondo si aprono alla vita. Sono, oggi, in una società che li convoca ad esibire competenze senza lasciar loro il tempo di entrare in contatto con sé stessi. Sono dentro ad un mercato della vita che chiede loro di esibirsi sulla scena del mondo, prima ancora di poter esporre il proprio animo a sé stessi, nell’intimo incontro con la vita, nel luogo dell’apertura, sulla soglia di ogni inizio, nel momento inaugurale di un tempo che è tutto futuro. Ma il futuro oggi appare più una minaccia che una promessa. Spegne lo sguardo e accoglie il disincanto. Per resistere a questo contesto inospitale i giovani hanno bisogno di voce per dire (o anche urlare) quello che sanno e possono essere, qui e ora. Non sono e non si sentono in attesa.
Sarebbe buona cosa ricordarsi anche di questo quando parliamo di loro, per esempio, quando dovremo riconoscere o negare il voto ai sedicenni.