Esiste il divismo televisivo? Sì esiste, ovviamente, anche se è tutto speciale, basato su categorie che il vecchio divismo non conosceva, come la confidenza, la fiducia, la familiarità. La domanda è nata assistendo alle celebrazioni funebri di Raffaella Carrà, una sorta di lutto nazionale. Era già successo con Mike Bongiorno e con Fabrizio Frizzi. Nelle interviste alla gente comune, la risposta più frequente è stata «Raffaella era una di noi».
Per «una di noi» è stata sconvolta la programmazione televisiva, è stato organizzato un tour funebre del feretro nelle sedi Rai, è stata allestita la camera ardente in Campidoglio.
Questa è la forza della tv generalista, che nonostante Internet è ancora il motore e lo specchio delle nostre passioni, emozioni, percezioni. Una forza capace di raccogliere una comunità altrimenti distante, di sincronizzare il quotidiano di milioni di persone, di offrire immaginari condivisi in modo trasversale.
Sì, quello televisivo è proprio un divismo un po’ speciale, creato in buona parte dall’abitudine, dalla ripetizione, dall’insistenza. Prima del reality e dell’aspirazione a «essere tutti divi», la qualifica di «divo» aveva un carattere esclusivo, si riferiva alle star hollywoodiane e più in generale al mondo del cinema: da Humphrey Bogart a Marilyn Monroe, da Gary Cooper a Rita Hayworth... Oggi non più, il divismo televisivo è spesso un catalogo sfibrato, privo di carisma.
È un divismo pret-à-porter o «fai-da-te», come l’ha definito Massimiliano Panarari in un saggio che compare nel libro Storie e culture della televisione italiana (Mondadori): «Il divismo (televisivo) si proletarizza o, meglio ancora, si sottoproletarizza, e si capisce, tutto sommato, anche il perché. In un Paese dalla scarsissima mobilità, e dove l’ascensore si è fermato (o, se si preferisce, è stato arrestato) da parecchio, il comparire in tv si rivela, in seno a un diffuso e ormai radicatissimo immaginario collettivo, un cospicuo lasciapassare per la “felicità”, ovvero per quel riconoscimento e quella notorietà da cui possono arrivare delle “opportunità”».
Quando, a un anno esatto dalla morte di Lady Diana, i media si sono accorti che il suo mito stava svaporando per mancanza di forza evocatrice e che il culto della principessa «bella e martire» era di molto scemato per assenza, o quasi, di adepti hanno finto stupore: «Ma come, i milioni di persone che hanno assistito al suo funerale, il più grande evento televisivo di tutti i tempi, la straordinaria cerimonia mediatica con cui erano state canonizzate le spoglie, tutto ciò finito nel nulla? E giù spiegazioni etno-sociologiche condite di tanto filisteismo: gli inglesi sono fatti così, l’uomo si commuove ma poi dimentica, morto un papa se ne fa un altro. Nessuno invece ha sottolineato come quell’oblio fosse in realtà non solo prevedibile ma addirittura previsto (e si potesse estendere ad altri simulacri più nobili, come quello di Madre Teresa di Calcutta, per esempio) in virtù di una ferrea legge mediatica: la dimenticanza è inversamente proporzionale al clamore suscitato.
Già, perché la nostra epoca non è popolata di miti, come normalmente si crede, quanto piuttosto da personaggi mitici. Il mito è un’insorgenza pura e incontaminata, un gesto che ci allontana dalla sensazione media del vivere, un incanto e un sigillo che si imprimono sulle cose. Il mito è una narrazione di un evento che ha avuto luogo in un tempo ritenuto primordiale; in altre parole, il mito racconta la creazione di qualcosa di «indimenticabile». Il «mitico» (aggettivo peraltro diffusissimo nel gergo giovanile) si presenta oggi completo di istruzioni per l’uso; è una sorta di mito chiacchierone, portato per sua natura a spiegarsi, a raccontarsi, a storicizzarsi. Dunque, a darsi una data di insorgenza (spesso casuale) e una di scadenza (raramente lasciata al caso).
Per questo oggi, nell’epoca della convergenza e della multimedialità, si preferisce parlare non tanto di mito quanto di icona, una parola che nel giro di poco tempo si è inflazionata. Raffaella Carrà, tra le sue molte virtù, era anche un’icona gay.
Ma cos’è un’icona? L’icona è una forma di immortalità terrena provvisoria; nella vita esistono strade che fin dall’inizio mettono l’uomo di fronte a questa sagoma di perennità, ancorché incerta, e persino inverosimile, ma tuttavia innegabilmente possibile: sono le strade degli artisti, degli uomini di spettacolo, di quanti riescono a imporre la loro tipicità essenziale. Che consiste nel raggelare il reale con qualcosa di unico che per un determinato frangente ne arresti la continua mutazione.
L’icona è un mito d’oggi, è un mito visto da vicino. Tutti i miti hanno un tempo fissato, un’acme, una morte. Quelli che sono durati più di tutti sono stati quelli antichi perché, allora, non c’erano, o quasi, i media.