Il calcio come reagente chimico di passioni e avversioni. Quest’anno Italia e Svizzera si sono affrontate tre volte, prima agli Europei (3-0 per gli azzurri) e poi durante le qualificazioni ai mondiali, in programma nell’emirato del Qatar nel 2022 (due pareggi). L’incontro tra le due nazionali ha sempre l’aria di un derby, in cui confluiscono, affastellati e confusi, groppi di varia origine. La temperatura è tradizionalmente elevata in Ticino, cantone di frontiera e dunque esposto ad intense correnti emotive, sia perché incuneato in Lombardia, sia perché demograficamente composito, risultato di una plurisecolare mescolanza di genti. La sua robusta colonia d’origine italiana non fa ovviamente mistero delle sue simpatie. Ma le divisioni corrono sovente all’interno delle stesse famiglie, specie quelle scaturite da matrimoni misti.
È noto che tra la politica e lo sport corrono relazioni cariche di tensione. Negli anni 70 erano al calor bianco in concomitanza con le famigerate iniziative Schwarzenbach. Discriminata, costretta a vivere ai margini della società elvetica, la colonia italiana ritrovava orgoglio allo stadio: una rivalsa, una forma di riscatto che per un attimo la riportava al centro dell’attenzione pubblica. Il calcio – come pure il ciclismo nel Belgio delle miniere di carbone – dava finalmente modo di sventolare il tricolore e quindi di ritrovare un’appartenenza che le circostanze della vita avevano offuscato.
Nella Svizzera italiana le cose non sono andate molto diversamente; anzi, proprio la contiguità geografica ha acuito il bisogno di distanziarsi e di differenziarsi. Sugli spalti riaffiora la sindrome dei «parenti serpenti»: la comunanza di lingua, cultura, religione cede il posto all’irruenza del tifo, che come si sa non conosce mezze misure. Facile allora sconfinare nell’anti-italianità, morbo assai diffuso a sud delle Alpi.
Al tifoso ticinese insofferente va tuttavia riconosciuta qualche giustificazione, che va oltre il terreno di gioco. In Italia il calcio è diventato nel corso dei secoli una religione che ha relegato in secondo piano tutte le altre attività sportive, che pure esistono ed eccellono, come si è visto nel corso delle ultime Olimpiadi. Interessi economici, ingaggi stratosferici, contratti televisivi, pubblicità, sponsor, giornali e rotocalchi hanno gonfiato il pallone all’inverosimile: un’ossessione quotidiana, un’allucinazione collettiva che non può non infastidire chi osserva questo caravanserraglio dall’esterno. L’Italia sarà anche la patria della retorica. Ma nel corso delle telecronache il commento raggiunge vertici tanto ineguagliabili quanto insopportabili.
Anche Ada Marra, consigliera nazionale vodese d’origine salentina, ad un certo punto del suo pamphlet sui diversi modi di essere svizzeri (ora disponibile anche in italiano nelle edizioni Dadò) affronta il tema calcio e del periodico incontro-scontro tra Italia e Svizzera. «Da che parte stai in questa occasione?», si sente regolarmente chiedere con una punta di malizia. È la solita trappola, chiosa Marra: «Se la risposta è «la Svizzera», si penserà che tu sia demagoga. Se invece dici «l’Italia», allora si rafforzerà l’idea che forse non ci si trova davanti a una vera e propria straniera, ma di certo non ci si trova davanti a una vera svizzera». Insomma, non c’è niente da fare: per chi acquisisce la cittadinanza alla fine di un lungo percorso fatto di attese, domande e verifiche, gli esami non finiscono mai. Sul capo di lui/lei pende sempre il sospetto di un’adesione alla nuova patria parziale e insincera, di una lealtà non incondizionata, di una fedeltà intermittente e quindi revocabile.
Peter Bichsel, nella sua Svizzera dello svizzero – libello che vale la pena di rileggere dopo aver chiuso quello di Ada Marra – dice che la Confederazione nella storia ha potuto salvarsi grazie alla sua diversità: di etnia, lingua, cultura, religione. Anche se a volte la coabitazione si fa spinosa e guastata da incomprensioni, la multiformità impedisce di scivolare nella boria e nei sentimenti di superiorità. «Sono contento – scrive Bichsel – che ci siano anche loro, i ticinesi, i francesi, i romanci. Potremmo impedirci vicendevolmente di diventare tipici». Ossia di far propria un’identità esclusiva, esaltata nella componente maggioritaria della compagine confederata ma assente in tutte le altre.