Distanza: effetti collaterali possibili

/ 01.06.2020
di Luciana Caglio

Un metro o due, no tre, forse cinque o magari di più se tira vento: qual è la giusta distanza, in grado di garantire l’incolumità dai contagi, impliciti nella vicinanza? L’interrogativo è diventato cruciale, adesso, nella fase 2 dell’emergenza. Con la riapertura di scuole, negozi, palestre, parrucchieri e bar, per forza di cose girano più persone. Tenute però a evitare incontri ravvicinati, effusioni, assembramenti. Da qui, forme di saluto e di socializzazione sostitutive, entrate nei comportamenti individuali correnti, e che, oltretutto, divertono i bambini. Tipo la sgomitata surrogato della stretta di mano, o il braccio alzato alla militare, o il ciao lanciato, ad alta voce, da un conoscente sull’altro lato della strada, o dal finestrino abbassato dell’auto.

Al di là di questi aspetti persino folcloristici, l’obbligo della distanza mette a dura prova chi gestisce ritrovi e servizi pubblici, luoghi destinati alla collettività. Ecco baristi e ristoratori impegnati a misurare lo spazio fra i tavoli, parrucchieri a eliminare poltrone e specchi per una clientela sfoltita, edicolanti a ripararsi dietro il plexiglas. Quanto mai ingrato, il ruolo del vigile che, sulla soglia dei supermercati, incanala i compratori lungo percorsi indicati da frecce sul pavimento e delimitati da nastri e barriere. Per non parlare degli insegnanti alle prese con l’equazione: classi dimezzate=aule raddoppiate. Insomma, sparpagliare gli allievi, ma dove?

Sembra, tuttavia, che pur fra malumori e rassegnazione, i nostri concittadini si siano adeguati. Facendo di necessità virtù. Sempre che, di virtù, si tratti. Il termine distanza qualche sospetto lo giustifica. Basta consultare il dizionario per trovare indizi rivelatori nei suoi sinonimi: lontananza, indifferenza, disparità, estraneità. E la dice lunga l’espressione «tenere le distanze». Che, adesso, si presenta con nuovi connotati, come avviene in situazioni d’emergenza che modificano la scala dei valori, e quindi le corrispondenti parole. Fatto sta che proprio distanza definisce ormai un paradosso: chi la pratica nei tuoi confronti, lo fa per il tuo bene. Se, in apparenza ti rifiuta, in realtà si preoccupa della tua salute. Distanziarsi riveste un significato terapeutico, è una sorta di farmaco efficace. Ora, al pari di ogni medicinale, anche la distanza può produrre effetti collaterali. Già per via della sua stessa denominazione, accompagnata dall’aggettivo «sociale». Un abbinamento discutibile che doveva provocare l’intervento del sindacalista luganese Gargantini: «A scanso di equivoci, si sostituisca sociale con fisico».

Ma, oltre che dal profilo politico, questa parola d’ordine si presta a riflessioni d’ordine psicologico e morale. Ha, infatti, creato una categoria d’interpreti zelanti, veri e propri patiti dell’obbedienza, che sfoggiano la loro superiorità di campioni sul fronte della consapevolezza civica e sanitaria. Se li incontri, girano al largo, lanciandoti, al di sopra della mascherina, uno sguardo di timore e di rimprovero. Insomma di dichiarata inimicizia. Ora, questo diffuso comportamento, ispirato alla paura dell’altro quale possibile contagioso, ha indotto Papa Francesco, acuto osservatore del costume contemporaneo, a esprimersi proprio sulla funzione dello sguardo «per vedere nell’altro una persona da avvicinare, con cui condividere. Qualcosa di vertiginoso: il senso stesso dell’esistenza».

Quanto poi la distanza, cioè l’assenza di contatti d’ogni tipo, sia innaturale e pericolosa nella nostra quotidianità lo spiega bene un illuminato laico: Zygmunt Bauman, in uno dei suoi più popolari saggi Stranieri alle porte (edizioni Correre della Sera). Vi racconta la storia dell’umanità attraverso la crescita, lo stare insieme, il conoscersi reciproco. Un capitolo s’intitola Insieme e accalcati, parole intese in senso positivo. Ma che, essendoci vietate, rischiano di suscitare la reazione opposta. Mi capita, lo confesso, di rimpiangere rumori e folla.