Febbraio 1971: cinquant’anni fa le donne svizzere hanno finalmente ottenuto il diritto di voto. Un anniversario importante in cui è custodito un volto molto significativo della nostra storia. Una storia tuttavia piena di ombre, che racconta anche di resistenze, pregiudizi e ritardi vergognosi, cui forse non si addice il tono celebrativo con cui, in diverse occasioni, si è parlato e scritto di questi troppo brevi anni. A volte ho percepito un’enfasi esagerata e inopportuna, da ricondurre in parte alle forme di comunicazione spettacolari che oggi dominano la scena pubblica ma pure a qualche intenzione elettorale, perché è sempre buona cosa esibire interesse per la questione femminile.
Non sono mancati tuttavia approfondimenti e riflessioni ben documentati di uomini e donne che hanno avuto il merito di portare a conoscenza, soprattutto delle nuove generazioni, segmenti importanti del nostro passato.
Riflessioni importanti che proseguono, oggi, su quella che continua ad essere la più inaccettabile realtà, ovvero la disparità salariale.
Certo, i pregiudizi culturali nei confronti delle donne non vanno sottovalutati, ma questa inaccettabile disparità pesca in modo più ampio e più in profondità nel retroterra storico. E racconta anche di troppe disarmonie di società dal respiro corto, incapaci di riconoscere le proprie potenzialità, incapaci di interrogarsi e di trasformare le presunte debolezze del sistema in grandi ricchezze. A cominciare dalla maternità come esperienza esistenziale che può nutrire la convivenza in tutti i suoi aspetti e non solo in una dimensione privata e domestica.
Queste disarmonie sociali, e la mancanza di sensibilità che le rende tuttora possibili, toccano anche altre categorie fragili, come lo sono, ad esempio, i giovani, spesso molto ben preparati ma che non possono esibire l’esperienza richiesta nei concorsi. O come i lavoratori «anziani» che, nonostante l’esperienza, nella crisi occupazionale spesso vengono tagliati fuori dal mercato.
Questi aspetti strutturali, che condizionano ancora profondamente l’organizzazione delle nostre società, suggeriscono che forse la chiave di lettura delle ingiustizie salariali nei confronti delle donne non può essere solo la cosiddetta questione di genere.
A questo punto, sarebbe addirittura auspicabile andare oltre la questione di genere che spesso si esprime attraverso stereotipi in qualche modo retrogradi. Quando sento parlare, e accade spesso soprattutto in ambito politico, di sensibilità femminile, di un modo tutto femminile di vedere e di affrontare i problemi, rimango assai perplessa.
Basterebbe mettere a confronto due protagoniste della storia recente, Margaret Thatcher, l’uomo politico in tailleur e cappellino, e Vandana Shiva, la scienziata che, abbracciando le piante, ci invita a comprendere la natura e in essa la nostra umanità. Due donne, due mondi, a suggerirci come anche la cosiddetta sensibilità femminile possa esprimersi in varie forme oppure rimanere silenziosa e, soprattutto, come non si lasci mai imprigionare nella rappresentazione simbolica della donna in quanto donna.
Ed ecco allora la domanda: siamo ancora vittime di stereotipi, di inopportune gabbie identitarie? Pensiamo ad esempio al mantra delle cosiddette quote rosa.
Può essere imbarazzante, o addirittura mortificante per una donna nutrire anche il solo sospetto di essere scelta non tanto per la sua bravura quanto piuttosto, e mi si perdoni l’espressione forte, per la sua appartenenza ad una specie in qualche modo protetta.
Anche Elisabeth Badinter mette in evidenza i limiti dell’approccio di genere. Secondo la filosofa, ciò che unisce uomini e donne è molto più importante e significativo di ciò che li distingue. Certamente esiste una differenza biologica, per cui il genere non può essere considerato una costruzione soltanto culturale. Tuttavia la differenza ancorata nella biologia dev’essere modulata sul concetto fondamentale di «umanità comune». Oggi viviamo in un clima piuttosto ostile a questa visione universalistica della natura umana che affonda le sue radici nei valori illuministici e nell’idea di una comune appartenenza di tutti all’umanità. Oggi sembrano prevalere visioni in cui si sottolineano le differenze tra culture e la Badinter a ragione associa questo clima alle questioni di genere: «se continuiamo a sottolineare le differenze tra i sessi, così come ci rinchiudiamo nelle nostre comunità a scapito delle nostre somiglianze, allora è la guerra».
Forse ciò che abbiamo chiamato sensibilità femminile è davvero una risorsa della nostra umanità di uomini e donne; una risorsa non ancora pienamente riconosciuta e perciò in buona parte inespressa.