Franco D’Andrea è considerato uno dei più validi pianisti e compositori del mondo del jazz. Helmut Failoni, che lo ha intervistato su «La Lettura» in occasione del suo 80.mo compleanno, dice di lui che «ogni volta che appoggia le mani sul pianoforte riesce a stupire anche chi lo ascolta e lo segue da anni. Possiede quel raro dono che è la grazia dell’imprevedibilità». Nonostante gli anni D’Andrea continua a coltivare la sua passione per l’insegnamento, abbinandola ad una sempre intensa attività con nuovi complessi (si va da un trio a una formazione con 11 elementi). Mi colpisce il titolo dell’articolo di Failoni: Aiuto! Ai giovani non piace il jazz. È riferito alla parte conclusiva dell’intervista, dove D’Andrea parla di un fenomeno che merita attenzione anche al di fuori dell’ambiente musicale. Interrogato sulle preoccupazioni che toccano il futuro del jazz, l’ottantenne compositore esprime un parere sostanzialmente amaro: «Mi preoccupa molto che nel jazz manchi il cambio generazionale». E spiega così la sua affermazione: «Il pubblico del jazz non è un pubblico giovane. Eppure è strapieno di giovani bravissimi che suonano. Ma non hanno amici coetanei che vanno ad ascoltarli? Evidentemente no, e questo significa che i jazzisti giovani sono degli isolati. È una notizia molto triste. Dovremmo inventare qualcosa, avvicinare i giovani al jazz, fare proselitismo».
La preoccupazione di D’Andrea invita a riflettere sulla problematica condizione di tanti giovani impegnati, anche solo a livello dilettantistico, nelle varie discipline artistiche, che ormai da più di un anno studiano e si esercitano praticamente isolati, senza spettatori e quindi penalizzati nelle loro aspirazioni. Ma il distacco e l’isolamento di cui D’Andrea parla, non stanno penalizzando solo l’arte. Anzi: stanno segnando, in tutto il mondo e sempre più drammaticamente, l’agire dei giovani accrescendo difficoltà e disagi esistenziali per le nuove generazioni. Di conseguenza il messaggio di D’Andrea per il jazz, vale a dire il suo «Dovremmo inventare qualcosa, avvicinare i giovani», dovrebbe risuonare forte anche in altri ambiti, in particolare in quelli politici, se vogliamo che dall’isolamento prolungato i giovani non ricavino solo frustrazioni e soprattutto non finiscano per subordinare i valori primari all’insofferenza e alla rabbia.
Di un altro avvenimento artistico, riferito alla pittura, si è parlato all’inizio del mese quando a Londra, durante la prima asta primaverile di Christie’s, un dipinto di Winston Churchill è stato venduto per 8.285.000 sterline (tasse comprese, oltre 10 milioni e mezzo di franchi, un prezzo quattro volte superiore alle stime iniziali). Diverse le particolarità che hanno contribuito a far lievitare il prezzo base. Innanzitutto perché era una delle rare tele a olio dell’ex premier britannico. Come ha scritto nel catalogo d’asta lo storico dell’arte Barry Phipps, La torre della moschea Koutoubia è considerato il dipinto più importante di Churchill, anche per la storia dei possessori. Lo statista inglese lo eseguì subito dopo la Conferenza di Casablanca nel 1943 e lo donò al presidente americano Franklin Delano Roosevelt. Pochi anni fa venne acquistato dall’attore Brad Pitt che lo regalò alla moglie Angelina Jolie, la quale ora (avendo divorziato da Pitt) lo ha posto in vendita tramite Christie’s. Da notare che nella stessa asta un altro dipinto di Churchill, raffigurante un paesaggio del Marocco, dipinto nel 1935 e regalato al generale Montgomery, eroe della battaglia di El Alamein: stimato tra 300.000 e 500.000 sterline, è stato battuto a 1,55 milioni di sterline (quasi 2 milioni di franchi).
Ma c’è un’altra particolarità, singolare e più... ceresiana. Di Churchill pittore parla anche Romano Amerio nel suo Zibaldone (IV): «Al Grotto, tra Darno e Osteno, nel settembre 1945 per tre giorni di fila Winston Churchill piantò il cavalletto, spremette i colori sulla tavolozza e dipinse la Valsolda». Amerio sostiene però che lo statista non era lì per il suo «svago dilettante», bensì alla ricerca del famoso e sconcertante carteggio Mussolini che conteneva anche lettere di approvazione e ammirazione inviate da Churchill al Duce. Raccontando l’aneddoto Amerio aggiunge di aver più volte sollecitato il comune valsoldese a interrogare la famiglia Churchill sull’esistenza tra i lavori del loro congiunto di alcuni paesaggi dipinti in Valsolda e di chiederli in dono per il comune.
Pensando all’asta di Christie’s, al rammarico di Romano Amerio oggi si può aggiungere la certezza di un’occasione persa. Da ultimo, un’aggiunta beffarda: mentre Churchill, vincitore del nazismo e della guerra, oggi viene consacrato anche come artista tra i più quotati del secolo scorso, tale Adolf Hitler, scappato in Baviera per evitare di essere arruolato nell’esercito austriaco e buttatosi in politica dopo che a Vienna era stato respinto come artista dall’Accademia delle Belle Arti, per la storia continuerà a essere, oltre che dittatore, «l’imbianchino di Braunau-am-Inn».
Di pianisti, pittori e... imbianchini
/ 22.03.2021
di Ovidio Biffi
di Ovidio Biffi