Recentemente, in una scuola del luganese, è comparso un coltello. Solo un accenno a uno degli episodi brutti che di tanto in tanto si annunciano nelle aule. Episodi brutti, preoccupanti, che confliggono con quella bellezza che sempre abita e alimenta autentiche atmosfere educative. Mi riferisco alla bellezza di esperienze che ci toccano nel profondo, che ci fanno crescere, ci aprono alla vita e sono l’essenza dell’educazione. Edgar Morin a ragione ha sostenuto, nel corso della sua lunga presenza culturale, che educare è insegnare a vivere. Ma, aggiungo, l’educazione è sempre un educarsi; è un’esperienza intima di apertura all’invito di un Maestro che sa accogliere e accompagnare il nostro sguardo. Quando accade, percepiamo un’emozione, un sentimento di bellezza che può trasformarci.
L’archetipo della potenza e del valore della bellezza sta nei dialoghi di Platone: questo sentimento, questa emozione che nasce nel corpo, è la sorgente del desiderio di trascendenza, ovvero è la spinta verso la conoscenza di una bellezza più grande. Il desiderio di trascendenza è tensione ideale che ci ricorda che noi non siamo mai solo quello che siamo: un bel modo per raccontare il viaggio educativo, il viaggio verso sé stessi.
Fin da questo antico messaggio inaugurale, si capisce come la bellezza non abiti tanto dentro le cose, quanto dentro di noi: è un’esperienza intima, che ha a che fare con il nostro sentimento di interiorità, qualcosa che ci chiama. Certo esistono tante cose belle che hanno un gran successo sul mercato. Per essere attrattivo ogni oggetto sembra dover esibire una propria indiscutibile bellezza. Sono forme di estetizzazione generalizzata, e di godimento estetico, che segnalano, credo, un gran bisogno di gratuità per cercare in qualche modo di dimenticare le molte bruttezze in cui il mondo racconta la sua storia.
C’è però una grande differenza tra le tante belle cose esibite, tra l’esibizione di sé e di ogni realtà nelle vetrine del mondo, e l’esporsi intimo a sé stessi nel riconoscere e nell’accogliere la bellezza che si manifesta in noi. Quella che per Platone, al di là delle molte cose visibili, è idea luminosa, nascosta nella nostra anima; o quella che Kant considera un sentimento umano universale, pura gratuità, pura finalità, che non ha nulla a che vedere con i piaceri e con gusti personali. O ancora, quella bellezza che ci smuove in un incontro imprevisto. Di questa intima esperienza di bellezza la conoscenza è senz’altro un luogo privilegiato. Lo sappiamo bene, non impariamo nulla senza una bella emozione. È proprio la percezione della bellezza della conoscenza ad illuminare il nostro cammino, la nostra domanda di verità.
Educarsi significa allora imparare a sentire la bellezza ovunque risuoni: nell’eleganza di una formula matematica, in una legge della natura che ci invita a contemplarla nelle sue espressioni, ma pure in una domanda grande, forse senza risposta. Comprendere e contemplare, non solo apprendere nozioni utili immediatamente spendibili. Mi torna spesso alla mente l’esternazione attribuita a Watson e Crick davanti alla prima immagine della doppia elica del DNA: «è troppo bella», pare abbiano esclamato, «dev’essere vera!».
Il riconoscimento della bellezza ha un suo linguaggio e questo linguaggio si offre a noi anche nella letteratura, nella poesia, nella musica. Qui avvengono incontri fondamentali che, come sostiene Morin, ci mettono in contatto «con il mondo dell’umanità interiore, cioè delle nostre soggettività, e anche con il mondo dell’umanità esteriore, quella delle altre mentalità e delle altre culture che ci vengono rivelate da un romanzo, da una poesia». Perché imparare a vivere significa riconoscere l’unità mentale e affettiva di tutti gli esseri umani. Imparare a star bene al mondo con sé stessi e con gli altri.
Quel coltello comparso in classe è davvero solo la punta di un iceberg che rivela però un malessere profondo, quasi sempre, e per fortuna, più sottile e silenzioso; un malessere che i ragazzi non riescono a lasciare fuori dall’aula. Di fronte a queste difficoltà, la scommessa educativa sta proprio nel coraggio di credere che educare sia ancora possibile.
Possiamo anche continuare a pensare al bene della scuola ragionando sulla griglia oraria, su quali insegnamenti proporre, e quando, secondo le richieste della società. È una preoccupazione plausibile, certo, ma se ci dimentichiamo di dare innanzitutto una risposta educativa al valore intrinseco, e gratuito, di ogni esperienza conoscitiva, allora restiamo complici di quello sguardo utilitaristico che tiene a bada il mondo. E questo significa rinunciare alla nostra responsabilità etica nei confronti delle future generazioni.