«The medium is the message» – il mezzo di comunicazione è il messaggio. Così, letteralmente, quel guru della sociologia che fu Marshall McLuhan intitolava il primo capitolo del fondamentale Understanding Media: the Extensions of Man del 1964. Il bestseller inaugurava la stagione di studi semiologici, linguistici e antropologici che, dall’etologia alla teologia, avrebbero messo al centro della riflessione dei maîtres à penser la comunicazione condita con tutte le salse immaginabili. Così Pierre Bourdieu si interrogava nel 1982 su cosa volesse dire il parlare (Ce que parler veut dire: l’économie des échanges linguistiques) – titolo che, quando lo vide sulla scrivania dell’Altropologo l’amico Caminazz – che vuol dire «Il Grande Camino» in dialetto romagnolo perché è grande come un caminazzo – e mi chiese cosa significasse mi disse che già dal titolo non ci capiva niente. Algirdas Greimas e Roland Barthes ce l’avevano messa tutta nei rispettivi trattati di semantica e di semiologia (Castore e Polluce – ovver gemelli – sulla distinzione fra i quali sarebbero crollati molti candidati alla laurea) per complicare la Cosa che poi, con Il nome della rosa, guadagnò un’Eco senza fine in quanto messaggio lanciato con un medium – quello del romanzo poi fattosi cinema – che legioni di semiologi di ogni persuasione e disciplina hanno cercato di assegnare a questa o quella scuola comunicativa senza addivenire ad alcunché di solido e condiviso. Dei seguaci, apologeti, luogotenenti, sergenti e caporali dei Nostri potremmo scrivere un elenco lungo come la Ritirata di Russia che tanto il risultato di una sessantina d’anni di studi e teorie semiologiche (e dintorni) è risultato, more solito, nel fatto che la cacofonia del ciò che voglia dire parlare – e non me ne vogliano i colleghi che ancora ci provano – è più intricata che mai e Babele, a confronto, era un parlatoio delle Carmelitane Scalze.
Provate ad aprire quell’incomprensibile poiché oscuro approdo della sbronza semiologica che investì come uno tsunami gli intelletti degli anni 70 ed 80 che si aggirava peraltro sottotraccia come uno squalo bianco già dal 1967 che fu Della Grammatologia di Jacques Derrida per persuadervi. Insomma, per stringere: comunichiamo sempre di più e ci capiamo sempre di meno. E non si tratta solo dei social dove chiunque può regredire a livelli di comunicazione in larga misura superati con la Scuola dell’obbligo ma oggi nuovamente affascinanti perché se ne possono dire di uno che ci ha rubato la merenda da forca e da galera senza rischiare un pugno in un occhio – o l’intervento della maestra che deve stare molto attenta a dove mette le mani. Ma c’è di più. A guardare certi talk show televisivi – l’apice del connubio media-messaggio – come è capitato l’altro giorno al vostro Altropologo preferito (per disgrazia visto che la televisione a casa sua non esiste) – sembra proprio che l’imperativo corrente della comunicazione sia alzare la voce, sovrapporla a quella dell’interlocutore per poi approfittare del momento nel quale anche il Nemico deve riprendere fiato per spararci dentro un insulto, una parolaccia e – se si è veloci – tutti e due. E anche quando uno ha il privilegio del monologo le cose non vanno meglio.
Prendete l’altro giorno. Mi chiama il Programma Radio Uno della Rai per chiedermi un parere altropologico sul massacro dei delfini (più di 1’400 cetacei in una volta) nelle Isole Faroe. L’occasione è ghiotta. Raro poter comunicare a radiogiornali nazionali su un tema sul quale – peraltro – credo di avere qualcosa da contribuire. Parlo per tre minuti – forse meno perché so benissimo come gira la giostra mediatica e dico in sostanza che Delfino vuol dire Fratello nella mitologia Greca ma che forse alle Faroe non lo sanno e dei delfini hanno altre idee e dunque occorre mettersi attorno al tavolo della globalizzazione e ragionare da adulti. Che sennò non si arriva comunque da nessuna parte. Risultato: quando ho ascoltato la versione editata/tagliata del radiogiornale non ci ho capito niente. Ma devono aver capito tutto quelli che mi hanno ascoltato per poi riempirmi di mediatici insulti – fossero pro o contro poco importa – chi al cellulare chi in Facebook. Morale: aveva proprio ragione McLuhan. Il messaggio è il medium. Letteralmente: sufficit quello. Basta parlare, che non occorre dire niente.