Si parla tanto dei decreti che regolano la nostra vita fin nei minimi dettagli. Ma non è la prima volta che succede. Nel 1578, la città di Torino conta 14’000 abitanti e dal 1563 è capitale del ducato di Savoia per volere del Duca Emanuele Filiberto il quale emana «Gli ordini politici» affinché «si raffreni l’ingordigia degli eccessivi e perniciosi guadagni». Si regola tutto, persino la distanza che devono tenere i banchi dei venditori fuori dal loro negozio, «non più di un piede comune». «I panettieri non facciano più di tre sorte di pane, cioè bianco, mezzano & negro». Nelle pescherie: «Non si venderanno rane con la testa, né con le gambe, né le seppie con la testa».
Sono 38 fitte pagine, prevedono regole anche i mendicanti e le meretrici: «Che le meretrici pubbliche non possino abitare nel corpo della Città, salvo negli ultimi cantoni, quali sono verso la muraglia». Cioè dal lato della Cittadella fortificata di recentissima costruzione (1564-1566) e si sa che i militari sono i loro clienti più assidui. Rimane una curiosità da soddisfare: per una città così piccola quante erano le meretrici? Procediamo nella lettura: «Ogni macellaio essendo interrogato sia tenuto rispondere la verità sopra la carne che egli vende, se sarà vitello, o bue, manzo, o castrato, maschio o femmina. Né far frode per cui la femmina appaia esser maschio». Dal che si deduce che la carne del maschio è più pregiata di quella della femmina.
Curiosità: oggi è ancora così? Il capitolo dedicato ai conciatori è uno dei più lunghi e dettagliati e si spiega pensando che in quel tempo le pelli e i cuoi non avevano concorrenti e occupavano un posto centrale nell’abbigliamento e nell’arredamento. Un dettaglio curioso: fra le merci in vendita non è mai nominato l’olio mentre il burro «si venda senza altra mercanzia» ovvero abbia un banco dedicato. I gesti del venditore sono regolati: «Che nessun mercante non possa vendere panni di seta, o d’oro o di lana di qualunque sorte, facendo la misura in aria, ma sia tenuto a misurare sopra la tavola, ossia banco coperto di tela e in piano».
Quanto agli orefici, ciascuno deve avere un’insegna alla sua bottega «e una marca della medesima insegna con cui marcherà tutti i lavori d’oro o d’argento». Per loro è regolata anche la successione: se l’erede è un figlio unico «non muterà l’insegna del padre». Ma se gli eredi saranno due e staranno separati «il secondo dovrà alterare l’insegna del padre, ma non in tutto». Non poteva mancare il capitolo sui servitori e servitrici, famigli e lavoranti: «Vedendosi ogni giorno nascere questioni, sdegni, furti e altri inconvenienti per l’instabilità delle persone che servono», nessuno può prendere a suo servizio alcun servitore che sia già al servizio di un altro padrone, a meno che sia finito il tempo per il quale era stato «fermato».
Anche il vino era disciplinato, a riprova che aveva un ruolo centrale sulle mense. È stabilito che «nessun vino puro o misto sia introdotto in Torino o nei suoi confini o nel distretto che non sia di origine torinese tranne il caso in cui per la siccità e il maltempo, votando concordemente tre parti dei consiglieri, si possa dare licenza per un certo tempo di importare vino forestiero, secondo il parere del Consiglio». Non si finirebbe più di citare.
Preferiamo trovare esempi che potrebbero ancora tornarci utili. Ogni anno il consiglio elegge due «stanziatori», che noi chiameremmo ispettori, scelti fra i buoni padri di famiglia che abbiano almeno trent’anni e esperienza dei commerci. Informati ogni giorno del valore d’ogni merce da un bollettino appeso alla torre civica dovranno controllare che i venditori la vendano al prezzo giusto. Se scoprono una maggiorazione sequestrano la merce e infliggono al venditore una multa che sarà divisa in quattro parti: una al fisco, una all’ospedale, una alla Città e la quarta parte all’ispettore che ha scoperto l’inganno.
Ai sarti è dedicato un lungo capitolo: ogni anno devono eleggere tra loro quattro consoli, due per gli abiti da uomo e due per quelli da donna. Saranno secondo il caso i periti del giudice ogni volta che un cliente chiederà i danni per una «veste malfatta, guasta o peggiorata in qualche modo» o quando la mercede sarà stata sproporzionata. Però se il cliente avrà lasciato libero il sarto di acquistare la stoffa e, dopo averla pagata, scoprirà che non è sufficientemente buona, «il sarto sarà tenuto di pagarla, salvo che faccia notare che non ve ne sia di meglio nella Città» e che lui di tale mancanza abbia dato notizia al cliente.
Ancora: chi fabbrica mattoni deve tenerne uno di pietra o di ferro che diventa il campione e tutti i mattoni che saranno da lui prodotti dovranno rispettare quelle misure. Nell’ultima pagina si trova un’annotazione che sembra riferirsi ai nostri giorni: «Si trovano in questa città magistrati e ufficiali maggiori, mezzani e inferiori, i quali molte volte concorrono nel far ordini e comandamenti, onde ne seguono disordini, spese e confusione di autorità».