Per damnatio memoriae s’intende il divieto da parte dell’autorità costituita o dell’opinione pubblica di menzionare, sotto pena di morte, il nome di una persona che si sia distinta per un atto criminale di particolare efferatezza. L’espressione venne coniata in prima battuta per obliterare dalla storia il nome di Erostrato, un abitante dell’antica Efeso peraltro non originario della città (o così almeno vollero far credere i suoi imbarazzati concittadini) se non forse addirittura – e peggio ancora – uno schiavo. La colpa di Erostrato è presto detta. La notte del 20 luglio del 356 AC aveva dato fuoco al tetto del grande, famosissimo tempio di Artemide ad Efeso (l’Efes dell’odierna Turchia) causandone la totale distruzione. Catturato e torturato prima di essere messo a morte dagli efesini inferociti per la perdita della fonte principale dei loro guadagni (ricorderete che qualche secolo dopo anche San Paolo avrebbe rischiato di fare la stessa fine predicando con un po’ troppo entusiasmo contro il culto della dea nell’anfiteatro cittadino), Erostrato confessò di aver compiuto il gesto al solo scopo di rendere il proprio nome immortale. Idea un tantino balzana, commenteranno gli assennati lettori dell’Altropologo – ma neanche tanto, ribatte l’Altropologo medesimo: sia sufficiente farsi un giro in youtube per rendersi conto di quanto la fame di fama possa indurre la gente a fare…
Il tempio di Artemide Efesia era considerato una delle sette meraviglie del mondo antico. Dopo essere stato distrutto da un’inondazione nel VII secolo, fu ricostruito dal Re Creso di Lidia – certo non noto per lesinare sui suoi investimenti – su progetto di architetti cretesi fra i quali spiccava il famoso Chersifone di Cnosso nel 560 AC. Coi suoi 120 metri lunghezza per 60 di larghezza, il nuovo tempio era stato inserito da Erodoto nella lista Unesco dell’epoca già nel V secolo: all’epoca di Erostrato aveva raggiunto grande fama globale, un po’ – diciamo – come le Torri Gemelle del WTC, e tale comunque da attirare l’attenzione del mitomane di turno. All’imbarazzo di vedersi ridurre in cenere l’orgoglio cittadino, agli Efesini toccava poi giustificare come mai l’ineffabile, onnipotente e onniveggente Artemide avesse permesso un simile atto di dissacrazione. La risposta fu trovata anni più tardi: la notte del 20 luglio dell’anno fatale, la dea era stata troppo impegnata ad assicurare che tutto andasse bene in occasione del parto del suo pupillo Alessandro Magno per potersi occupare del tempio in fiamme… O così almeno si dice dicesse lo stesso Alessandro quando offrì di pagare di tasca propria per la ricostruzione del tempio. Gli Efesini preferirono tenere a distanza l’ingombrante sponsor. Declinarono con grazia l’offerta e nel 323 cominciarono la costruzione della terza ed ultima versione del tempio. Era ancora più grande del secondo – 137 metri per 69 di larghezza e dotato di 127 colossali colonne. All’interno del tempio erano conservate le immagini della Dea che – fin dai primi tempi – si erano succedute a illustrare ai fedeli l’oggetto della loro devozione.
Artemide (Diana, per i latini) è una delle figure più antiche e complesse del pantheon dell’età antica. In particolare, il culto di Artemide Efesia data almeno dalla prima Età del Bronzo, quando la dea era ancora in stretta relazione storica e simbolica con le grandi figure delle varie Dea Mater dell’area geografica e culturale fra la Mesopotamia e l’Anatolia (l’odierna Turchia) che aveva visto le origini della rivoluzione neolitica. L’etimologia del nome ne certifica l’identità di Signora degli Animali: proviene infatti dall’indoeuropeo «arctos-orsa», laddove l’orso è protagonista principale dello sviluppo dei culti religiosi dell’emisfero boreale fin dal Paleolitico.
Associata alla Notte e al Mondo degli Inferi già nelle mitologie interculturali dell’Orsa Maggiore, Artemide, complice l’amante/concorrente – anch’esso stellato – Orione, è anche dea dell’iniziazione femminile ai compiti muliebri: a Brauron, nell’Attica, le era dedicato un santuario presso il quale le giovani adolescenti di Atene dette arctai – «le orsette di Artemide» – passavano un periodo iniziatico prima di assumersi le responsabilità di giovani e di madri. Da questo sottofondo preistorico, secondo un complesso percorso simbolico e cognitivo di secoli, Artemide diventerà tout court dea della fertilità e dell’abbondanza a tutti i livelli: a Efeso convergevano madri incinte e contadini, pastori e mercanti, soldati e infermi. Ciascuno sicuro di trovare conforto e protezione nella Grande Madre.
Poco sappiamo della fine del tempio di Artemide con la vittoria del Cristianesimo. Certo alcune delle colonne del santuario furono usate per la costruzione di Hagia Sophia a Costantinopoli dopo che era stata decretata la chiusura per legge dei luoghi di culto pagani. Nel 268 DC i Goti a loro volta saccheggiarono quel che rimaneva del tempio portando via quanto poterono ancora rimediare. Ma per i misteriosi paradossi della Storia storieggiata, del tempio della Grande Artemide ci resta il nome di chi deliberatamente lo distrusse in quel lontano 356 AC: dei giudici che ne decretarono la proverbiale damnatio memoriae non ce ne resta alcuno.