Per contrastare alcune vistose derive del nostro tempo a me pare importante coltivare meglio il sentimento della nostra comune appartenenza, non solo ai destini del mondo, ma pure alla natura nelle sue molteplici espressioni. Questo sentimento ci può aiutare a contrastare certe forme esasperate di individualismo e tanti sogni di onnipotenza che impoveriscono il nostro vivere e convivere. Basti pensare all’aumento delle disuguaglianze e delle sofferenze di molti, o all’uso scriteriato di una natura divenuta solo risorsa da sfruttare e agli squilibri ecologici che ci interpellano oggi con urgenza; o ancora, al girotondo di tante vite esibite, in cui legami sempre più fragili ospitano solitudini e spesso anche conflitti.
Parlo di un sentimento perché il sentire è sorgente spesso inascoltata di tante verità. Bello sarebbe allora riuscire a coniugare la ragionevolezza dei sentimenti, che ci immerge nella complessità della vita, con le conoscenze scientifiche che della vita cercano di comprendere e spiegare i segreti.
Per sperimentare questo felice intreccio tra la ragionevolezza di sentimenti ed emozioni e la razionalità delle conoscenze scientifiche, vi propongo di entrare in uno dei nostri bellissimi boschi a incontrare le atmosfere offerte dai suoi molteplici linguaggi.
La scienziata Vandana Shiva ama mostrarsi aggrappata a tronchi secolari in amorevoli abbracci, per ricordarci il legame fisico e simbolico con la natura che alimenta le sue ricerche. La filosofa Maria Zambrano ha fatto del bosco, con i suoi chiari, misteriosi ed enigmatici, una potente metafora dell’anima: il bosco come il luogo originario dell’anima, l’aurora del pensiero che può nascere solo decifrando ciò che sentiamo. Poi ci sono i boschi e le foreste abitati dai poeti e quelli visitati da naturalisti e biologi.
Nelle parole dei poeti possiamo incontrare boschi colorati e profumati di sacro, come in questi versi di Alda Merini: «il colore chiaro del legno / che alza il suo cuore cantando / nell’inno dei cieli, / quel colore che si leva nel vento / e parla con il tuo Signore / l’antico messaggio segreto / della creazione e del caos». Anche nelle parole di biologi e naturalisti risuonano le stesse domande e le stesse inquietudini, e gli scienziati, parafrasando una bella immagine di Nietzsche, interrogano gli alberi per capire se hanno un animo uguale al nostro. Come dire: anche il loro sguardo si apre su ciò che della vita condividiamo, alla ricerca di risonanze sempre possibili.
Alla vita degli alberi è dedicato un interessante quaderno monografico della rivista «Philosophie Magazine»: una bella occasione per ampliare la riflessione sulla nostra comune appartenenza attraverso gli esiti più attuali di studi scientifici. Molti studiosi del mondo vegetale descrivono l’intelligenza delle piante e le loro molteplici espressioni, come la capacità di imparare, di memorizzare, di comunicare e perfino di scegliere i propri comportamenti. Comportamenti iscritti nella natura biologica che rendono difficile immaginare un confine con il mondo animale. E in effetti questi studi tendono ad annullare ogni frontiera tra le varie forme di vita.
Ci sono tuttavia anche posizioni più caute nell’assumere questa visione unitaria. Ad esempio la filosofa Florence Burgat sostiene che gli alberi, nelle loro trasformazioni legate alle stagioni, esprimono l’idea di una continua rinascita, tracce viventi di immortalità che noi non possiamo sperimentare in prima persona. Proprio per questo gli alberi non possono essere pensati come individui, perché il loro trasformarsi in una crescita virtualmente illimitata allude in un certo senso all’immortalità e perciò va sempre oltre il vivere individuale. La loro potenza di vita sembra voler sfuggire alla condizione di essere nato e dunque di essere mortale, come lo siamo noi. Ci sarebbe perciò una differenza qualitativa incolmabile tra la potenza della vita, che condividiamo nella catena del vivente, e il vivere che sperimentiamo noi in prima persona.
Pur con sfumature molto diverse, anche questo nostro specchiarci nella vita degli alberi sembra comunque suggerire più responsabilità verso il cosmo cui apparteniamo. Anche in un simbolico abbraccio con gli alberi, nello sguardo del poeta o in quello del biologo, possiamo sentire e comprendere il nostro legame con una natura da cui ci siamo chiamati fuori. Nuove posture che ci allontanino un po’ da quel centro che non ci appartiene e ci accompagnino verso significati più armoniosi del vivere e del convivere: verso un autentico umanesimo della condivisione.