Dalle fabbriche ai capannoni

/ 18.03.2019
di Orazio Martinetti

Che cosa succede in quei capannoni inaccessibili, simili a moderni penitenziari? Di preciso non si sa, hanno spiegato due recenti servizi radiotelevisivi (Modem e Falò). In alcuni si vedono sfilare autocarri, in entrata e uscita, in altri non si scorge anima viva. Si sa soltanto che hanno fatto la fortuna fiscale dei comuni in cui sono spuntati come escrescenze cutanee. Finché dura, hanno pensato le municipalità beneficiate, non c’è ragione di chiedere e di interrogare. Sono i frutti della «valle della moda», la nuova fonte di luce dell’economia ticinese, settore tanto scintillante quanto opaco.

Tutto andava per il meglio, salvo che per la guardia di finanza italiana, mossa dal sospetto che qualcosa non quadrasse. Se il tessile in Ticino era quasi scomparso, in quali grandi stabilimenti avveniva la produzione di capi di vestiario e di accessori tanto costosi, vanto di marchi mondialmente noti? Dov’era la manodopera intenta a tagliare e cucire, a disegnare sagome, a maneggiare aghi e forbici? Solo ombre. Solo un giro di etichette e di fatture. Un giro-raggiro architettato per evadere il fisco.

Non è la prima volta che il Ticino rimane vittima di scelte economiche decise altrove. Tutti ricordano il prodigioso sviluppo della fascia di confine nel secondo dopoguerra: una fungaia di fabbrichette imperniate proprio sull’abbigliamento: camicerie, maglifici, calzaturifici. I provvedimenti introdotti dalla Confederazione negli anni ’60 per arginare l’immigrazione, specie dall’Italia, escludevano dai contingenti la manodopera frontaliera, pozzo dal quale si poteva attingere liberamente. Nella cintura sottocenerina sorsero molte succursali di aziende tessili con sede oltralpe. I vantaggi erano notevoli: retribuzioni inferiori alla media, maestranze docili prevalentemente femminili, scarse tutele sindacali, ampia offerta di forza-lavoro già formata. Anche i comuni italiani a ridosso della «ramina» s’ingrossarono, una crescita demografica dovuta all’arrivo di operai e di operaie provenienti dal Sud della penisola. Benché sottopagata rispetto alla media, un’occupazione in Ticino era comunque preferibile all’inoccupazione cronica e al lavoro nero, piaghe secolari del Mezzogiorno d’Italia.

Il meccanismo funzionò bene per svariati anni. I frontalieri, che nel 1955 erano appena seimila, crebbero costantemente, fino a raggiungere i 31mila nel 1980 (oggi sono 62mila). Nei confronti dei ticinesi non c’era concorrenza, giacché gli italiani s’inserivano nei piani bassi della gerarchia lavorativa, sospingendo verso l’alto, verso i servizi (banche, assicurazioni, commerci, impieghi statali), gli indigeni. Si venne così a creare un mercato del lavoro duale, suddiviso in compartimenti; rari i passaggi da un segmento all’altro.

Ben presto, tuttavia, emersero anche i lati negativi. Quella di frontiera era un’economia poco innovativa, fondata soprattutto sull’apporto umano («labour-intensive»), scarsamente interessata ad investire in tecnologia. Il basso costo del lavoro non stimolava gli imprenditori ad imboccare questa strada. Poi c’erano gli effetti collaterali: il traffico, sempre più congestionato nell’area dei valichi, l’inquinamento, il disordine edilizio, un territorio rivoltato e scavato per far posto a stabili informi. Mattoni e cemento inghiottirono campi, vigneti e masserie, cancellando le toscaneggianti colline del Mendrisiotto.

Infine è arrivato il capannone, costruzione che pian piano ha lasciato la fascia di confine per spingersi verso i fondivalle superiori. Il capannone è un contenitore generico, composto di elementi prefabbricati, destinato ad attività polivalenti. Funge da opificio ma anche, o soprattutto, da piattaforma logistica, che raccoglie, classifica e ridistribuisce. Al suo interno corrono nastri trasportatori, manovrati da gruppi di lavoratori chiamati «addetti». Nella fabbrica tradizionale entravano materie prime per diventare prodotti finiti; nel capannone la merce non subisce nessuna trasformazione, ma semplicemente «transita». I sindacati non sono graditi; la manodopera è flessibile, non ci sono «operai», ma soltanto «collaboratori».

È questo un buon modello industriale per la nostra economia, da accogliere a braccia aperte? La discussione è in corso. Sicuramente in questi ultimi decenni sono giunti imprenditori capaci e lungimiranti; ma purtroppo ha varcato la frontiera anche qualche volpone, abile a sfruttare le opportunità che le autorità offrivano senza porsi tante domande.