Non molto tempo fa la segretaria di un ufficio al quale mi ero rivolto mi ha chiesto di fornirle il mio numero di telefono; mentre lo inseriva nel suo computer ha aggiunto la richiesta di fornirle anche il numero del cellulare; quando le ho risposto che non l’avevo ha sgranato gli occhi per un attimo, poi, con discrezione, ha concluso la digitazione.
Piccoli episodi come questo mi confermano che sono arretrato: dovrei aggiornarmi, ma preferisco rimanere ancorato a quel passato nel quale sono cresciuto e che appare ormai desueto. Da bambino, ricordo, c’era in casa un unico telefono – una voluminosa scatola nera appesa alla parete: squillava raramente perché serviva solo per le comunicazioni necessarie o per rari contatti con parenti lontani. Oggi, con il cellulare in tasca e sempre acceso, la comunicazione è costante e – anche se non ci sono informazioni rilevanti da trasmettere – lo scambio di chiacchiere è sempre possibile e gradito. E, naturalmente, in un mondo nuovo arrivano problemi nuovi.
Ci pensavo di recente, leggendo che è stato presentato un atto parlamentare che chiede di vietare, in via sperimentale, l’uso di smartphone e tablet nelle scuole dell’obbligo, allo scopo di contrastare il fenomeno del cyberbullismo. E l’iniziativa ha già cominciato a far discutere.
Per la verità, non credo che la proposta, qualora venisse approvata, varrebbe a eliminare il cyberbullismo; ritengo però che il divieto di utilizzare un cellulare a scuola si possa ragionevolmente fondare su altri motivi. Ad esempio, renderebbe più difficile barare durante un esperimento in aula: se c’è un problema da risolvere e un allievo scatta la foto della pagina e la invia a un amico compiacente, può ricevere rapidamente la soluzione e riportare un successo immeritato. Ma, soprattutto, io credo che la scuola dovrebbe rimanere un luogo diverso dalla strada, dal bar e dal campo di calcio; varcare la soglia dell’edificio scolastico dovrebbe costituire un atto di transizione dal mondo di fuori a un ambiente particolare, dove vigono regole conformi all’istituzione. E, se la scuola vuole ancora assumersi un compito educativo, dovrebbe appunto avere regole che la caratterizzino: vogliamo che i ragazzi imparino? Bene, allora è necessario che si concentrino sulle spiegazioni dell’insegnante, sul testo da leggere: la dispersione dell’attenzione come conseguenza del multitasking e dell’essere sempre connessi è un fenomeno segnalato e deprecato ormai da anni da psicologi e pedagogisti; non sarebbe male se la scuola costituisse un luogo di raccoglimento dove l’attenzione viene ancora coltivata.
Già: ma poi mi sorgono dubbi sul fatto che il divieto dello smartphone in aula possa davvero concretizzarsi. Quando si introduce un divieto se ne chiede anche l’osservanza. Ma ogni norma, per essere rispettata, richiede che si prevedano sanzioni in caso di trasgressione; ora mi pare che, nella scuola dell’obbligo, le sanzioni siano di fatto abolite. Ricordo un caso, accaduto a Lecco, in Italia, nel 2005: in aula un’allieva stava telefonando e disturbava la lezione; il docente ha tentato di toglierle il cellulare e subito è scattata una denuncia, conclusasi con la condanna del docente, giudicato colpevole di «tentata violenza privata».
No, forse è inutile rimpiangere una scuola che ancora richiedeva disciplina e prevedeva sanzioni; quel suo tempo è ormai tramontato. Perciò anche il cyberbullismo è un fenomeno che si tende a qualificare come una patologia comportamentale, piuttosto che come una trasgressione e una violenza da castigare; e anche l’attaccamento al cellulare come compagno di vita è ormai definito una «dipendenza», una patologia della quale si parla, sin dall’inizio del secolo, come della «sindrome del telefonino». In ogni caso, dunque, anziché introdurre divieti e sanzioni, si preferisce ricorrere al sostegno psicologico e a campagne di prevenzione (spesso ho l’impressione che quando non si sa bene cosa fare, quando una decisione politica accontenterebbe solo una parte della popolazione e ne scontenterebbe un’altra, si adotti questa soluzione di comodo: «si fa prevenzione»).
Del resto, questo è il progresso, la nuova evoluzione. Due miliardi di anni fa apparve la prima cellula dotata di nucleo; a due milioni d’anni or sono risale l’apparizione della prima vera specie ominide. Dalla cellula primitiva siamo ora giunti al cellulare: l’umanità intera si avvia a diventare un unico gigantesco organismo pluricellulare – non in senso biologico, ma tecnologico.