Ritratto di famiglia con tivù: così s’intitolava il volume, pubblicato dalla TSI nel 1998, per il suo quarantesimo. In quelle pagine si rievocava un itinerario, giustamente definito avventura: aveva, infatti, collaudato un linguaggio ancora da inventare, con tutti i rischi del caso. Non soltanto privilegiava l’immagine rispetto alla parola, ma lo faceva in modo tutto nuovo, con effetti imprevedibili. Per la prima volta, si coinvolgeva il grande pubblico, promovendolo a partecipante, addirittura a protagonista, o sollecitando la sua voglia di diventarlo. Si entrava nell’era di «Una Tv per vedere e per vedersi», come scrissi, allora proprio per le pagine di quel volume, in veste di testimone di un fenomeno, vissuto da vicino. Ero cresciuta nella stessa casa dove c’era un cinema. I loro proprietari, che gestivano varie sale in Ticino, informavano mio padre, giornalista e critico cinematografico, a proposito di una minaccia, proveniente dagli USA , che incombeva sul grande schermo: la concorrenza del piccolo schermo, rivale vincente. A partire dagli anni 60, molte sale furono costrette a chiudere. Sembrava in via d’estinzione la categoria dei fedeli spettatori di film, per non parlare dei patiti da cineclub, verosimilmente attirati da un altro dispensatore di immagini e sogni. Tanto che, per rimediare clienti, i cinema proiettavano le trasmissioni televisive più popolari, cominciando dal «Lascia o raddoppia» di Mike Bongiorno.
Si stava, effettivamente, assistendo a un passaggio di consegne, forse irreversibile: dalla sala pubblica al salotto di casa. Proprio qui, il televisore conquistò un posto rilevante, anche fisicamente ingombrante, a cui spettarono funzioni insospettabili. Non soltanto come strumento di svago e informazione, ma come centro e collante della vita familiare, simbolo di un’unità affettiva. Rappresentava il focolare, nella versione XX secolo, con un ruolo destinato, a sua volta, al declino. Imposto, dalla tecnologia, che, nel giro di pochi decenni, mette fuori uso strumenti, gesti, abitudini. Si mette in moto un processo d’adeguamento che modifica persino valori e concezioni estetiche. Ecco che, a distanza di un ventennio da quella ricorrenza della TSI, il titolo Ritratto di famiglia con tivù può sembrare una forzatura nostalgica, un’immagine dai contorni sfocati, da album dei ricordi. In realtà, rifletteva un momento di vita, largamente condiviso, anche dalle nostre parti, quando il piccolo schermo era amato, seguito, discusso. Non contava, però, soltanto per i suoi influssi sulla quotidianità individuale. La tv era diventata un tema affrontato e analizzato sul piano alto della cultura, della politica e della morale. Se ne occupavano, per citare i più famosi, Marshall McLuhan, Umberto Eco, e Karl Popper autore dello storico saggio Cattiva maestra televisione. Qualcuno, come il presentatore della Rai, Enzo Tortora, gli dedicò un pamphlet dal titolo maliziosamente dissacrante: O tivù dal cuore acceso, parafrasando una preghiera e sottintendendo che quella era una nuova religione.
Fatto sta che sotto il peso di accuse, non del tutto immeritate, la tv fu considerata, appunto, una cattiva maestra, almeno in cerchie particolari di cittadini, più sensibili al buon gusto e al buon senso. Ci furono genitori che scelsero la via rigorosa del rifiuto d’ordine educativo: niente tv per i loro figli. In generale, fra gli intellettuali prevaleva l’equazione tv=trash. Anche medici e psicologici denunciarono il pericolo di una dipendenza da piccolo schermo. Timori, del resto giustificati nei confronti di un mezzo che creava asservimento. E definiva esemplarmente il nemico di turno. A ben guardare, si tratta però di una costante, con cui ci si ritrova sempre a fare i conti. Adesso, i ragazzi hanno abbandonato il salotto con tv accesa. Preferiscono isolarsi in camera per connettersi, digitando tastiere di smartphone e tablet. E non mancano i genitori che proclamano: «A mio figlio niente telefonino».Un divieto per eliminare, o aggirare, un ostacolo?