Da Alfieri a Paolo Conte

/ 19.10.2020
di Bruno Gambarotta

Nel programma del recente Festival del Cinema di Venezia un posto d’onore è stato riservato al documentario dedicato a Paolo Conte. La notizia solleva una folata di ricordi che risalgono a settanta anni or sono. L’astigiano più famoso nel mondo adesso è Paolo: quando noi eravamo ragazzi era Vittorio Alfieri, per gli amici il Trageda. Paolo è nato il 6 gennaio 1937, mentre Alfieri festeggiava gli anni dieci giorni dopo, il 16.

Il Trageda era morto a Firenze nel lontano 1803 ma ad Asti continuavano a festeggiare il suo compleanno e a quella data – ogni anno – ci portavano incolonnati per due al teatro Alfieri, per assistere alla recita di una sua tragedia (ne ha scritte 17). I nostri insegnanti giuravano che era diversa da quella dell’anno prima ma a noi sembrava sempre la stessa vedendo gli attori col peplo e le gambone pelose infilate nei calzari.

Inchiodati sul palcoscenico, martellavano quei versi impossibili, dove cinque battute potevano stare in un solo endecasillabo. Paolo batteva il tempo agli attori picchiando il righello contro la sbarra metallica del loggione e qualcuno di noi a teatro poi c’è tornato e c’è rimasto. Fin da ragazzo Paolo era un leader naturale e indiscusso e io strisciavo per essere ammesso nel gruppo dei suoi amici. Avendo saputo che stava organizzando una squadra di calcio, gli avevo giurato che sapevo giocare a pallone. Non era vero. Calciavo – male – solo col piede sinistro e quando mi arrivava un pallone sul destro lo stoppavo e, prima di calciarlo, ruotavo di 180 gradi. Paolo urlava di rabbia e mi cacciava in porta, dove nessuno voleva stare.

Morivo dalla paura di non essere all’altezza; la vista di un avversario con il pallone tra i piedi che correva verso la mia porta mi procurava violenti movimenti intestinali. Se l’avversario se n’accorgeva ero salvo, perché piombava a terra piegato in due dalle risate. Toccava al capitano dell’altra squadra urlare di rabbia. Per togliermi dal campo di gioco Paolo s’inventò che c’era bisogno di uno che scrivesse la cronaca delle partite. La segretaria dello studio notarile del padre di Paolo me le batteva a macchina. Nessun giornale le ospitava, stavano incollate per qualche giorno in alto a destra contro la vetrina del bar Cocchi (in piazza Alfieri!) il locale frequentato dagli sportivi. Non dimenticavo mai di firmarle con nome e cognome.

È nata lì la mia vocazione, dal momento che l’unica cosa che sapevo fare era scrivere. Ho fatto follie per entrare a far parte del primo complessino jazz messo su da Paolo, la «Asti New Orleans Jazz Band»: come non sapevo giocare a pallone così ignoravo tutto della musica. Un giorno tutta la band è piombata in casa mia: abbiamo deciso che devi suonare la cornetta. Avevano visto nella vetrina di un negozio di strumenti musicali (in corso Alfieri!) una tromba di seconda mano, un vero affare nel quale avrei dovuto investire la paghetta di un anno che mi sarei fatto anticipare dai miei genitori. In corteo siamo andati al negozio, mi hanno messo in mano lo strumento e io l’ho impugnato come avevo visto fare da Louis Armstrong nelle foto sulle copertine dei dischi e ho incominciato a soffiarci dentro. Niente. Non usciva niente. Mi incitavano, mi battevano amichevoli colpi sulle spalle, il negoziante mi mostrava la sua bocca atteggiata a culo di gallina. Niente da fare: ripiegammo sulla batteria ma quanto a comprarla era fuori discussione.

La «Asti New Orleans Jazz Band» si esibiva – gratis – nelle sale da ballo dei vari circoli quando l’orchestra titolare si concedeva un quarto d’ora di riposo. Aspettavamo pazienti il nostro turno, stando in piedi, la schiena contro il muro, così i camerieri non potevano pretendere da noi la consumazione. Ogni tanti balli il direttore di sala prendeva in mano il microfono e annunciava: «Dama a scegliere!» Da quel momento erano le donne a prendere l’iniziativa: se era lecito che una dama invitata da un cavaliere a ballare rispondesse «no grazie», a ruoli invertiti era impensabile che il cavaliere si rifiutasse. Così noi eravamo costretti a fissare la punta delle nostre scarpe per non incrociare lo sguardo di qualche befana ed essere obbligati dal galateo a farla ballare.

Quando finalmente arrivava il nostro turno il batterista dell’orchestra mi affidava il suo strumento con mille raccomandazioni e mi permetteva di utilizzare solo le spazzole. Dopo due esibizioni il gruppo decise all’unanimità che c’era assoluta necessità di avere qualcuno che scrivesse i comunicati stampa mentre della batteria si poteva fare benissimo a meno, anzi il sound del complesso sarebbe migliorato. Io dissi: «Posso fare entrambe le cose, scrivere i comunicati stampa e suonare la batteria». «E le fotografie? Chi le fa le fotografie? Come fai a scattare le foto mentre suoni la batteria?».

Ho ritrovato quelle vecchie foto in bianco e nero: seduto alla batteria c’è Giorgio, il fratello di Paolo.