Dell’influenza della cultura woke sul mondo dell’immaginario, con effetti spesso controproducenti, si sta discutendo molto nel mondo e, forse, ancora poco da noi. Si tratta di un atteggiamento ideologico che ha contagiato sceneggiatori e produzioni americane e inglesi e, per molti, è una vera e propria guerra culturale. Il problema non è l’insieme di valori sociali di questo movimento: sono perfettamente legittimi e in gran parte condivisibili. Il problema è come vengono imposti e il fatto che, questa strategia di propaganda, per i suoi metodi finisce con il tradire molti dei valori stessi.
Il termine «woke» (contrazione di «woken», participio passato del verbo «to wake», «svegliare»), già diffuso alla fine del XIX secolo, nasce e si sviluppa inizialmente all’interno delle comunità afro-americane degli anni Trenta e Quaranta del XX secolo come forma di allerta e attenzione verso le discriminazioni razziali e di classe del tempo. Secondo la definizione che ne dà il dizionario Zanichelli, a partire dagli anni Sessanta il termine comincia ad assumere una valenza pienamente politica, legandosi ai movimenti per i diritti civili. A contribuire al suo rilancio (e al suo significato) negli anni più recenti è stata la cantautrice di neo soul e rhythm and blues Erykah Badu con il verso di una sua canzone che recita appunto «I stay woke», mentre a partire dalla metà degli anni Dieci del XXI secolo tale concetto diventa l’architrave simbolico dei movimenti Black Lives Matter, MeToo e altri, espressione delle battaglie culturali e sociali dell’America di oggi. La trasformazione ultima della cultura woke consiste nel tentativo di appropriazione e riconfigurazione da parte delle élite politico-culturali con la finalità di indirizzare il dibattito dell’opinione pubblica e utilizzare i prodotti della cultura di massa come strumenti di una «vera e propria guerra culturale».
L’impatto più rilevante di nuovi valori e prospettive di narrazione, almeno in termini di visibilità e ribalta mediatica, riguarda il mondo cinematografico di Hollywood. Alla fine del 2020 l’Academy of Motion Pictures Arts and Sciences, l’organizzazione che gestisce e assegna gli Oscar, ha stabilito che, a partire dal 2024, per accedere alla nomination come miglior film e concorrere per l’ambita statuetta, sarà necessario soddisfare alcuni criteri specifici quali la presenza di un attore protagonista o non protagonista appartenente a un gruppo etnico sottorappresentato (asiatico, ispanico, afro-americano, mediorientale, ecc.), che almeno il 30% del cast sia espressione di minoranze (donne, comunità LGBTQ, persone con disabilità), e ancora che la trama stessa dell’opera risponda a tali indicazioni. Ulteriori criteri prevedono poi analoghe indicazioni specifiche anche per le realtà produttive e distributive, alle quali si chiede la presenza all’interno dei propri staff di personale appartenente alle categorie sottorappresentate, con riflessi non soltanto sul contenuto del film, ma anche sugli stessi assetti organizzativi delle aziende coinvolte nella realizzazione e dei professionisti impiegati, nell’ottica, secondo i promotori, di favorire maggiori processi d’inclusione in una società globale in costante trasformazione.
L’annuncio non ha mancato di suscitare reazioni e polemiche, in particolar modo paventando il rischio di standardizzazione e appiattimento della libertà creativa, ancor più vincolata alle imposizioni della political correctness.
Il mondo Disney ha impresso una svolta significativa, intervenendo anche su pellicole e lungometraggi storici, spiegando alle generazioni giovani che quei titoli erano stati prodotti in epoche e contesti differenti e che, a ogni modo, alcune dinamiche narrative in essi contenuti sono da ritenersi ingiuste e scorrette. È il caso di film come Lilli e il vagabondo o il più recente Aladdin del 1992 che, nell’offerta streaming della piattaforma Disney+, sono stati accompagnati da disclaimer inequivocabili: «Questo programma include rappresentazioni negative e/o trattamenti errati nei confronti di persone o culture. Questi stereotipi erano sbagliati allora e lo sono oggi».
Come ha scritto Riccardo Manzotti, studioso di psicologia dell’arte, «il controllo dell’immaginario non è una questione da poco: è il campo di battaglia dove si conquista il mondo reale perché è il luogo dove si scelgono i valori in base ai quali si premiano o si puniscono le persone. È l’inversione del rapporto tra arte e morale: pensare che qualcosa sia bello perché è giusto».