Come i nostri lettori sanno, la pandemia del Coronavirus non ha colpito allo stesso modo tutti i settori economici. Tra i rami più colpiti, oltre al turismo e alla gastronomia, ci sono le attività culturali. I lettori lo sanno per esperienza diretta. Quest’anno son venuti loro a mancare gli spettacoli teatrali, i concerti (di ogni tipo), le mostre in istituzioni grandi e piccole, i molti festival che, di solito, animavano i finesettimana dalla primavera all’autunno, e chi più ne ha più ne metta. Per il momento non è stato pubblicato ancora nessun bilancio della stagione culturale. Non saremmo però sorpresi di apprendere che, in pratica, più dei 3/4 delle manifestazioni culturali, che si sarebbero dovute svolgere con la partecipazione del pubblico, sono state cancellate, rimandate o svolte con limitazioni di accesso, oppure solo con l’intervento del digitale.
A perderci sono stati un po’ tutti: dal pubblico, in particolare da quello degli abbonati, che ha dovuto rinunciare alle serate programmate e magari rimetterci in buona parte la cifra sborsata in anticipo per i biglietti, agli organizzatori che, naturalmente, non sono riusciti a far quadrare i loro conti. È certo tuttavia che a sopportare la quota maggiore dei costi della pandemia sono stati gli artisti stessi che non hanno potuto prodursi per i diversi divieti che si sono succeduti nel corso degli ultimi otto mesi. Non si tratta di poche persone. Come ha infatti messo in evidenza un rapporto, pubblicato di recente dall’Ufficio federale di statistica, nel 2018, nel nostro paese, la produzione culturale interessava 63’000 aziende che occupavano circa 300’000 persone.
Per non creare confusioni è importante precisare che queste aziende e questi occupati costituivano, in parte, il settore della cultura e, in parte, si trovavano in altri rami di attività dell’economia del nostro paese. Se prendiamo come termine di riferimento l’occupazione, possiamo affermare che circa l’80% degli addetti erano occupati in attività del settore culturale mentre il restante 20% svolgeva attività culturali fuori da questo settore. Che le cose stiano così è ovviamente da far risalire alla definizione di attività culturali che, nel caso della statistica federale, è relativamente larga, comprendendo anche – per fare solo qualche esempio – l’architettura e la pubblicità. Osserviamo che, sia dal profilo del numero delle aziende, sia da quello degli occupati, si tratta di cifre importanti. Anche qui, per fare un solo esempio, ricordiamo che il settore bancario occupava, sempre nel 2018, appena poco più di 100’000 persone. In altre parole in Svizzera, oggi, ci sono tre occupati in attività culturali per un bancario. È un rapporto che certo creerà qualche sorpresa anche presso gli addetti ai lavori che potrebbero leggerci.
Il settore culturale in più è un settore moderno: praticamente è uno dei componenti del cosiddetto quaternario, ossia del complesso di attività che si è venuto sviluppando, con la deindustrializzazione, il continuo crescere di importanza degli agglomerati urbani e l’aumento della quota di occupati con formazione al livello terziario (università, politecnici, accademie e scuole universitarie professionali). Qui terminano però i commenti positivi. Perché, nonostante la sua importanza come datore di lavoro, il settore culturale ha relativamente poco peso in materia di valore aggiunto. Le cifre dell’Ufficio federale ci dicono infatti che mentre le aziende del settore rappresentano il 10,5% del totale delle aziende della nostra economia e gli occupati il 6,3%, il contributo del settore al valore aggiunto nazionale è solo del 2,1%.
I problemi del settore sono dunque quelli di tutti i rami ad alta intensità di lavoro: la produttività è troppo bassa. Lo riscontra anche il rapporto dell’Ufficio federale. Sicuramente sono molti i fattori che spiegano perché il contributo del settore al valore aggiunto è così basso. Dal rapporto dell’Ufficio federale di statistica possiamo rilevarne alcuni. In primo luogo le attività culturali occupano una maggioranza di donne (51%), che sono meno retribuite che gli uomini (con differenze che, a seconda dei rami, possono andare fino al 23%) e, in secondo luogo, le attività culturali non sono, di regola, attività a tempo pieno, il che, naturalmente, viene a diminuire ulteriormente il contributo che gli occupati delle stesse possono dare al PIL nazionale. Il terzo fattore è quello che si è manifestato in particolare quest’anno: il risultato economico di queste attività dipende, molto più di quello di altre, dalla presenza del pubblico.
Cultura, tra importanza economica e problemi
/ 07.12.2020
di Angelo Rossi
di Angelo Rossi