Cultura: identica e sovrana

/ 21.09.2020
di Cesare Poppi

Uno degli effetti collaterali di quello straordinario periodo di cambiamento culturale inaugurato dal cosiddetto Sessantotto fu il revival delle minoranze etno-linguistiche di tutta Europa. Il fenomeno rimase largamente... minoritario, ma investì inaspettato l’intero continente. Sami scandinavi, baschi e catalani di qua e di là dai Pirenei, Bretoni, Gallesi e «Celti» di ogni sorta, Provenzali, Occitani, Arpitani e Franco-Provenzali – i misteriosi Frisoni ed i remoti Galleghi ed Asturiani – poi per altri e più drammatici versi gli stessi Irlandesi dell’Ulster e i Fiamminghi del Belgio... insomma, una foresta di nuove bandiere di nazioni minoritarie scuoteva i confini statali consolidati dai massacri delle due guerre mondiali per proporre un rimescolamento delle carte. Era un movimento allo stesso tempo drammatico e gioioso. Gli stessi esiti violenti delle prime rivendicazioni nei paesi baschi e in Irlanda facevano sperare gli utopisti più avventurosi e sognatori in una rapida soluzione dei conflitti nel quadro di un’Europa democratica e federale di nazioni libere e sovrane oltre le camicie di forza della forma-Stato che per molti aveva concluso la sua parabola storica. 

A Sud delle Alpi l’Articolo 6 di quella che molti vogliono essere la costituzione più bella (e inapplicata) del mondo recitava con un’improvvisa ed inedita autorità «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche». Detto ma non ancora fatto: slavi e croati, albanesi, grecanici e griki, ladini e friulani, walser e brigaschi, valdostani, arpitani e franco-provenzali in diaspora dagli occitani coi quali non volevano essere confusi – per non far menzione di quante altre comunità a quel tempo tentarono di accreditarsi come minoranze – era un fiorire di bandiere nazionali sui campanili di un Gran Pavese che il Bel Paese (il gioco di parole è troppo ghiotto) inalberava a celebrazione di una democrazia confusa però perlomeno variopinta. Al centro delle rivendicazioni il concetto di Cultura. Erano quelli, peraltro, gli anni nei quali il grande pubblico scopriva l’antropologia – la disciplina che aveva nel cuore storico – ed aveva a cuore – il concetto di Cultura come base della diversità delle formazioni sociali di ogni lingua e colore. In quegli anni Lévi-Strauss non era solo una marca di jeans e qualcuno lo leggeva pure. Altri rimanevano fulminati da Carlos Castaneda e dai fumi emanati da una pseudoletteratura esotizzante figlia dei fiori e dei Peter Kolosimo. Si trattò di un lungo momento nel quale «essere minoranza» era dignum et justum. La tutela, la difesa e la promozione delle tradizioni culturali – se e soprattutto se «in via di estinzione» – testimonianza di libertà, tolleranza e democrazia compiuta. Nel 1973 sarebbe uscito il popolarissimo Small is Beautiful di Ernst Friedrich Schumacher: insomma la Cultura che ancora appariva conservata dalle Piccole Patrie attraeva – a torto o a ragione, ma non è questo il luogo per dibatterne – come garanzia di diversità culturale di fronte alle minacce del mondo massificato sul quale già si levavano le ombre sinistre della globalizzazione prossima ventura. Insomma, per un Attimo Corto nel Secolo Breve sembrava che la Cultura – la stessa delle ricette della nonna e del Canto Popolare intonato in lingue non più sottovoce – ci avrebbe salvato dall’omologazione.

A distanza di mezzo secolo quel modo di leggere le dinamiche storiche ha dovuto convertire quell’antropologia in altropologia. Poiché sono cambiate non solo le carte, ma anche il gioco su di un tavolo radicalmente rovesciato. Il Bel Paese – quello della Bella Costituzione che ama e cura le minoranze – è investito dall’onda del Sovranismo che rivendica a sé la tutela, difesa e promozione della Cultura Nazionale. Il tornado populista che oggi, 21 settembre, secondo ogni previsione canterà vittoria rivoluzionaria un taglio delle spese parlamentari ad impatto pressoché zero, procede verso il Sol dell’Avvenire mano nella mano (sì, poiché accompagnato dal negazionismo complottista antivaccinale che nega l’esistenza del Virus e dunque non rispetta la distanza sociale) con la rivendicazione del diritto che la Cultura Nazionale avrebbe di proteggersi dai contagi minoritari. Si è scoperta la biodiversità di nematelminti e platelminti (trattasi di vermi) e la si vuole giustamente tutelare. Così come si vuole oggi tutelare una fantomatica «cultura della maggioranza» dall’infezione di subdoli agenti esterni, portatori insani di pericolose culture di minoranza degne – quelle – di scomparire.

Il tavolo da gioco è stato rovesciato, e delle speranze nuove che conoscemmo in un passato seppur difficile almeno colorato rien ne va plus. L’Altropologo dubita fortemente che esista un qualcosa che si possa chiamare «cultura nazionale» in un Paese che ha visto nazioni di ogni ordine grado e colore contribuire a quel che siamo. Sovrani sì, oggi come sempre, di contribuire ovunque si sia e ovunque si vada, a pari merito, e chi più ne ha più ne metta. E dunque anche a casa nostra, senza paura.