Così vicini, così lontani

/ 15.08.2022
di Orazio Martinetti

Non c’è che dire, l’Italia sorprende sempre. Sorprende innanzitutto gli stessi italiani, che non si aspettavano una chiamata alle urne al termine dell’estate. Ma sorprende anche noi, vicini svizzero-italiani, convinti che la legislatura arrivasse questa volta alla scadenza naturale, ossia nella primavera del 2023. Illusione. Noi sappiamo quando si voterà l’anno venturo, il calendario degli appuntamenti è noto da tempo sia per le cantonali che per le federali. Oltre confine le date sono invece volatili, espressione di una spirale di fattori contingenti, non sempre razionali. Qui si misura la distanza tra noi – intesi come svizzero-italiani – e l’Italia. Stati retti entrambi da ordinamenti repubblicani, divergono per più aspetti. La Svizzera, per esempio, non ha conosciuto l’istituto della monarchia. La vecchia Confederazione si reggeva su una struttura piramidale (territori dominanti, città alleate, baliaggi) con alla testa oligarchie prevalentemente urbane (facoltose famiglie patrizie, membri di influenti corporazioni).

La penisola italiana, per secoli «nave senza nocchiere in gran tempesta», è rimasta frammentata in ducati e principati, terra «lacera e corsa» da parte di eserciti stranieri prima che al principio dell’Ottocento prendesse avvio la stagione del Risorgimento. Questo cammino, promosso dalle forze democratiche, non condusse tuttavia all’affermazione dell’ideale repubblicano: l’Italia divenne regno, guidato dalle teste coronate di casa Savoia. E tale rimase fino al 1946, anno in cui la cittadinanza (uomini e donne) votò per la repubblica (ma con un Meridione largamente favorevole al re). Nel frattempo il paese era passato attraverso due guerre mondiali, sperimentando il nazionalismo, l’interventismo e il fascismo. Il concetto di repubblica («res publica») è antico, ma la sua concezione moderna prende piede dopo la Rivoluzione francese; nella fase dell’«Ancien régime» morente arriva nella vecchia Confederazione al seguito dell’esercito napoleonico. La «Repubblica elvetica» d’impronta francese avrà vita breve (1798-1803), ma aprirà la strada all’insieme dei diritti e dei doveri che successivamente, nel 1848, sfocerà nell’adozione di una Costituzione federale: un’isola repubblicana nel cuore dell’Europa, circondata da regni e imperi.

Dunque, per riassumere: Italia e Svizzera sono entrambe repubbliche, ma con notevoli differenze. L’elenco sarebbe lungo, e va dall’architettura dello Stato (l’uno unitario, l’altro federalistico) al funzionamento della macchina amministrativa. Istruzione, sanità e fiscalità sono in Svizzera ampiamente decentrate; non così in Italia, che resta una nazione fortemente centralizzata nonostante numerosi tentativi di riforma (si pensi alle proposte della Lega prima maniera influenzata dal pensiero di Gianfranco Miglio). Anche il rapporto con la politica è profondamente diverso, riconducibile non tanto all’indole degli abitanti (come ritenevano i viaggiatori d’antan) quanto alla marcata presenza delle ideologie che hanno occupato la scena tra Otto e Novecento. Un’influenza che nella Svizzera pragmatica è rimasta tutto sommato marginale, tranne che negli anni caldi della contestazione giovanile a cavallo del ’68 e dei moti urbani degli anni ’80.

C’è infine quasi una differenza antropologica nel modo di scendere e duellare nell’arena televisiva. In questo ambito i mondi sono davvero molto lontani, tanto che noi, al di qua della frontiera, seguiamo i dibattiti sulle reti italiane come fossimo al cospetto di una rappresentazione teatrale. Qui riemerge l’Italia di Machiavelli, di Guicciardini e del cardinale Mazzarino; le convergenze parallele e la non sfiducia; don Camillo e l’onorevole Peppone; l’abilità dialettica e la rissa, la retorica e la battutaccia, un repertorio che il mezzo televisivo esalta al massimo grado, dalle Alpi alla Sicilia. Condizioni che invece vengono a mancare nella Svizzera quadrilingue e multiculturale, con ciascuna comunità chiusa nel proprio spazio comunicativo di riferimento, a volte esclusivamente dialettale. Diceva Prezzolini: «Crediamo che l’Italia abbia più bisogno di carattere, di sincerità, di apertezza (apertura), di serietà, che di intelligenza e di spirito». Qualche po’ di intelligenza e spirito potrebbe cederlo a noi, in cambio di una buona ed efficiente amministrazione della cosa pubblica.