Prima questione: la Svizzera fa (ha fatto) la sua parte per migliorare la sorte dei profughi in arrivo dall’Africa e dal Medio Oriente? La risposta, alla luce della situazione creatasi alla stazione San Giovanni di Como e negli immediati dintorni, è no, che la Confederazione non ha dato quanto avrebbe potuto dare nella gestione dei flussi. Non pensiamo ad una generale ed indiscriminata apertura dei confini nazionali. Ci riferiamo alla possibilità di collaborare fattivamente con i governi dei paesi nordici per agevolare i ricongiungimenti familiari e parentali. Molti migranti affermano infatti di voler raggiungere comunità già stabilitesi in Germania, in Olanda, in Danimarca, in Svezia. Se è così, non si vede come si possa rifiutare l’istituzione di un corridoio umanitario, in accordo con la Germania o con l’Unione Europea. Un’attività di intercessione diplomatica che farebbe onore al nostro paese e che gli permetterebbe di rinvigorire la sua tradizione d’aiuto e di soccorso nata nell’Ottocento con Dunant e la fondazione della Croce Rossa.
Le soluzioni fin qui adottate hanno invece ricalcato un protocollo freddamente burocratico, un codice di norme e regolamenti che non ammette deroghe. Non è un problema nostro, sembrano dire le autorità svizzere a quelle italiane esibendo la relativa normativa: arrangiatevi, noi non c’entriamo. Ma la Confederazione s’illude se crede di poter scampare da questo drammatico deflusso che pian piano sta svuotando intere regioni africane, flagellate da guerre, carestie e regimi dittatoriali.
Ricette facili e risolutorie non esistono. Ma tra il «non voler far nulla» (chiusura ermetica delle frontiere) e il «voler far qualcosa» s’apre uno spazio in cui è possibile combinare due punti forti della tradizione elvetica: la solidarietà e l’organizzazione. Solo in combinazione questi due fattori possono dare risultati pratici efficaci ed eticamente accettabili. In passato la Svizzera ha accolto ugonotti, soldati, anarchici, ricercati, fuoriusciti, dissidenti, ebrei, antifascisti, perseguitati di vario orientamento: operazioni che si sono sempre tradotte in un guadagno netto per il paese, sia in termini di prosperità, sia in termini di prestigio internazionale. Ha anche accolto numerosi orfani, traumatizzati dai conflitti. Nel 1944 il giornalista Walter Robert Corti propose sulle pagine della rivista «Du» di costruire un villaggio destinato ad ospitare i bambini vittime della guerra. Sorse così nel 1946, a Trogen (Appenzello esterno) il Kinderdorf Pestalozzi, insediamento filantropico che nel corso degli anni ha ospitato migliaia di minori provenienti da vari angoli del mondo.
Siamo del parere che altri villaggi del genere potrebbero nascere per alloggiare, nutrire e formare i tanti incolpevoli minorenni che la risacca bellica ha abbandonato sull’arenile dell’Europa.
Seconda questione: ricordiamo ancora l’odissea dei nostri emigranti, in epoche in cui toccava ai nostri antenati provare quanto sa di sale il pane altrui, in contrade spesso ostili e al servizio di padroni senza scrupoli? Giorgio Cheda, nel suo ultimo libro (Cielo e Terra, edizioni Oltremare), ricorda episodi che non possono non suggerire inquietanti analogie con le disperate traversate odierne nel Mediterraneo. Cheda riporta la lettera di Leonardo Pozzi, salpato dal porto di Amburgo nel 1855 alla volta di Melbourne: una navigazione durata 111 giorni in cui tre dei suoi compaesani avevano «reso l’anima a dio e il corpo al mare». Ecco che cosa accadde su quella nave: «siamo partiti da Amburgo il 31 maggio e siamo arrivati a Porto Filippo il 19 settembre in 169. Tre di Vallemaggia sono morti i quali sono Guglielmoni Giacomo di Fusio abitante a Niva, morto il 3 settembre e d’anni 55, Filippini Giuseppe di Cevio, il 6 settembre morto, d’anni 31. Il terzo è Beroggi Antonio d’anni 27 morto il 13 settembre, di Cerentino. In tutto eravamo sul bastimento in 172 passeggeri i quali sono 2 Verzasca, 120 Valmaggesi, 10 Luganesi, 8 Piemontesi, 15 Tedeschi e 13 Marinai col capitano, due porchi [sic] che fan 15 e due cani che fan 17». Ad un certo punto scoppiò pure una protesta per questioni riguardanti il vitto, subito rientrata sotto la minaccia dei fucili imbracciati dall’equipaggio».
Oggi il Ticino non ama ricordare questo passato. Se qualcuno lo evoca, si sente rispondere che quelli erano altri tempi, che i nostri non erano rifugiati ma gente che intendeva lavorare, e sodo, per costruirsi un futuro migliore. Come definirli allora, se non dei «migranti economici», proprio la categoria oggi più vituperata?