Cosa vale per Carnevale

/ 12.02.2018
di Cesare Poppi

Il trascorso 30 dicembre ha visto l’inaugurazione ufficiale del Carnevale di Venezia. Dopo lo scandalo planetario della stangata del 21 gennaio ai turisti giapponesi che si sono visti rifilare un conto di 1100 euro per quattro bistecche e una frittura (ma, hanno malignato i maligni, il ristorante è di proprietà cinese e quindi sarà stato un regolamento di conti fra di loro) la città era in attesa di riscatto. Invece – sempre secondo i predetti – si è rischiato il massacro. Introdotto il «numero chiuso» in ottemperanza ad un decreto antiterrorismo il pubblico dei visitatori è stato diviso in due scaglioni che, secondo gli organizzatori, si sarebbero dovuti alternare per assistere alla sfilata delle gondole cariche di maschere.

Il risultato è stato il caos. Non appena finita la kermesse sull’acqua il pubblico in uscita premeva per... uscire, mentre quello in entrata spingeva per... entrare e disporsi lungo il canale. Facile immaginare cosa fosse la situazione sui ponti. Più difficile decidere quale Santo sia intervenuto a far sì che nessuno si facesse del male – o magari solo un tuffo nel canale. Ce la si è cavata con tanta paura e molti improperi. Compresi quelli, autorevoli, del Primo Cittadino della Serenissima. Blindato in un costume da Batman – certo non la più veneziana delle maschere – il Sindaco ha tuonato contro chi si lamentava della deficiente organizzazione dell’evento ricordando a tutti che da sempre il Carnevale a Venezia «era un casino» (sic!) di gente che urlava e spingeva. «E a chi non può sopportare un po’ di folla dico che vada in campagna».

E così il Carnevale avrebbe ritrovato le sue radici di evento borderline fra il divertente ed il rischioso, con l’inevitabile frisson di trasgressione e di pericolo che (da sempre?) lo contraddistingue. Ricorda l’Altropologo come, da bambino, il Carnevale proprio non gli piacesse (anche) perché, a Bologna come altrove, torme di adolescenti esagitati davano la caccia alle ragazze giovani (e carine) per bastonarle con certi randelli di plastica che – pure – finivano per lasciare lividi ed occhi pesti. Ignobile, certo, memoria degli antichi Luperci, giovinotti che nella Roma dei primi secoli (regnava Numa Pompilio, successore di Romolo) a metà febbraio inseguivano in stato di semi-possessione (e probabilmente ubriachi) le matrone per fustigarle ai fini – si diceva – di renderle fertili.

Che ai riti delle maschere sia associata la violenza, spesso mortale, è una costante trasversale a tutte le culture. Durante le celebrazioni funebri per un membro seniore della società segreta delle maschere Sigma, nel Nordovest del Ghana, la maschere invadono il villaggio e si scatenano in furti e violenze di ogni sorta. Hanno licenza di entrare nelle corti delle case e buttarle a soqquadro mentre si impadronisco di un pollo o svuotano un orcio di birra... Ma era così anche a Predazzo, oggi pacifico, ridente centro turistico nelle Dolomiti. Qui gli Zanni, maschere antesignane di molti personaggi della Commedia dell’Arte legate nella cultura popolare – come peraltro Pulcinella – al mondo dei morti, avevano facoltà di entrare nelle case e rubacchiare tutto ciò che fosse cibaria. Ancor oggi a Carano, all’altra estremità della Val di Fiemme, i giovani coscritti che partecipano alla festa del Bandieral fanno un punto d’onore dell’entrare di soppiatto nelle case e saccheggiare frigoriferi e cantine. Più seria era la situazione a Nord-est di Predazzo, nella vicina Val di Fassa. A Moena si narrava, ancora negli anni 70 del secolo scorso, di un omicidio perpetrato fra le due Guerre dalle maschere dei Lonc, «i Lunghi», che pattugliavano il paese dopo l’Ave Maria serale nei Venerdì di Carnevale, quando a tutti era proibito uscire di casa. Più a monte narravano gli anziani di come i cortei mascherati che circolavano in giri di questua per le case dalla Valle Superiore alla Valle Inferiore dovessero concordare i rispettivi percorsi ai fini di mai incontrarsi perché l’incontro fra maschere di paesi diversi sfociava inevitabilmente in violenza.

Anni fa, in prossimità del villaggio di Vresovo, nella provincia bulgara di Burgas, un anziano contadino mostrava all’Altropologo un cumulo di sassi eretto ad un trivio in memoria di tre kukeri – le maschere del Carnevale locale – rimaste uccise durante uno scontro fra cortei mascherati finito male. Nihil sub sole novi: a Romans, nel Delfinato francese, il Carnevale del 1580 è rimasto nei testi di storia. Mascherate opposte ed alternative furono organizzate dalla nobiltà e dal popolo ai fini di ridicolizzare e mettere in guardia la fazione opposta. Dopo giorni di tensione la cosa degenerò e finì in un massacro. «Per Carnevale ogni scherzo vale» – e di più, verrebbe da dire. La Riforma che abolì di forza il Carnevale lo fece anche per farla finita – o fu forse un pretesto? – con gli eccessi della festa, col risultato, se si fa eccezione per il peraltro ordinatissimo e civilissimo Carnevale di Basilea e pochi altri, che nei paesi protestanti le maschere sono scomparse. Che fare dunque? Tutti a Venezia, e occhio al portafoglio!