Corretti, scorretti e trombette

/ 22.03.2021
di Paolo Di Stefano

Essendo una giovane poetessa afroamericana, Amanda Gorman va tradotta da una donna giovane, attivista, nera. Non se ne esce: queste sono le condizioni poste (nero su bianco), dall’editore Viking Books. A occuparsi della versione olandese non potrà essere Marieke Lucas Rijneveld, la persona scelta dalla casa editrice Meulenhoff, perché è di pelle bianca e forse anche perché non è così giovane e così attivista come auspicato.

Poco importa che sia una delle scrittrici e poetesse più stimate, per cui si presume che conosca il valore della parola poetica. E lasciamo stare il fatto che ha vinto uno dei premi letterari più prestigiosi angloamericani (a volte è meglio un mai premiato di un superpremiato). Poco importa anche che, esattamente in sintonia con la poetica di Amanda Gorman, Rijneveld si sia mostrata sempre sensibile ai temi sociali, essendosi occupata, anche nei suoi libri, di argomenti legati all’uguaglianza. Poco importa, infine, quel principio persino banale secondo cui la traduzione è una pratica che si vive del confronto tra le diversità.

Insomma, sarà assurdo, ma i requisiti imprescindibili restano tre: giovane, attivista e nera (che abbia sensibilità poetica non è contemplato). Ed è questa una delle idiozie a cui conduce l’ortodossia fondamentalista (1) del «politicamente corretto», che diventa scorrettissima.

Ma siccome le idiozie non vengono mai sole, un’altra idiozia è che da un po’ di tempo non è possibile dire o scrivere «poetessa», perché sarebbe discriminante, mentre una poetessa deve esser definita «poeta». E un’altra idiozia è considerare politicamente scorretto dire che la poesia letta da Amanda Gorman durante la giornata di inaugurazione della presidenza Biden (The hill we climb 4+) non sembra propriamente un capolavoro.

Non essendo giovane né attivista né nero, non sono purtroppo autorizzato a tradurre qui nemmeno un verso del poemetto, il cui senso generale è un generico richiamo alle sciagure del passato per costruire un futuro migliore. Va perciò escluso che la traduzione italiana, prevista da Garzanti, possa essere affidata a poeti maschi nati negli anni 50, 60, 70, 80 e neppure 90… Ma neanche una delle migliori traduttrici dall’inglese, la studiosa shakespeariana Nadia Fusini (6), pur essendo donna, avrebbe i connotati anagrafici ed etnici richiesti.

D’altra parte, Ginevra Bompiani (6-) ha preso posizione sulla polemica ricordando di aver tradotto qualche poeta eschimese pur essendo molto freddolosa. E uscendo dallo scherzo ha aggiunto che il fatto che Céline fosse antisemita non le ha impedito di tradurre un suo romanzo, Rigodon. Non va sottovalutato però il suo sospetto: che si tratti di un’ottima trovata pubblicitaria per far discutere di un libro che altrimenti avrebbe ben pochi acquirenti in Europa.  

Il vero guaio è che se Amanda Gorman esige una traduttrice-sosia, bisognerà immaginare che la Divina Commedia vada ritradotta in turco da un guelfo bianco di Istanbul, in esilio e di circa 750 anni d’età come Dante. Va poi considerato che il poema dantesco, secondo ciò che suggeriscono gli sbandieratori del politicamente corretto, prima di essere tradotto dovrebbe subire una sana sforbiciata. Basta leggere Le parolacce di Dante Alighieri (5½, Tempesta Editore), il recente saggio del filologo Federico Sanguineti, dove si mettono a fuoco i luoghi «inaccettabili» del poema, a cominciare dal canto di Maometto, seminatore di discordia tagliato dal mento all’ano con le viscere che gli pendono tra le gambe.

Sono, appunto, i passi che andrebbero ripuliti a vantaggio della buona coscienza del lettore e del suo benessere morale. Il libro di Sanguineti è dedicato «a chi dice parolacce però le dice soltanto per gioco come Montale che dice “zambracche”». La «zambracca» è la prostituta e i versi montaliani a cui si allude sono quelli della raccolta Satura: «Le parole / non sono affatto felici / di esser buttate fuori / come zambracche e accolte / con furore di plausi / e disonore». 

La cosa sorprendente è che le parolacce del Sommo Dante, maestro del sublime, hanno spesso fonte nella Bibbia (da ripulire anche quella), dove ci si imbatte in mangiatori di escrementi e in diverse «baldracche». Quelle di Dante sono parole che oggi farebbero quasi sorridere, tipo «sterco», «merda», «merdose», «puttana», «puttaneggiar», in gran parte utilizzate nell’Inferno, dove il gradino basso del linguaggio è ovviamente più frequentato che altrove. Non dimentichiamo che nel canto XXI incontriamo un capo dei diavoli che, per dare il segnale della partenza al piccolo plotone dei suoi simili, «avea del cul fatto trombetta».

Ma l’invettiva più violenta si trova nel Purgatorio VI dove l’Italia, incapace di farsi nazione, è qualificata con il peggiore degli improperi: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave senza nocchiero in gran tempesta, / non donna di provincie ma bordello!». Erano i secoli bui e quelle terzine, che per di più parlavano della contemporaneità, potevano circolare tranquillamente, senza plotoni di censori con le forbici in mano, dotati di trombetta puritana sempre pronta a lanciare un allarme.