Uno stadio può essere un feticcio. Pensate al Maracanã di Rio de Janeiro. Di certo è una casa. Pensate a cosa rappresenta il Wembley per il calcio inglese. Un luogo amico. Pensate alla Valascia e alla Resega per il popolo biancoblù e bianconero. Quando un vecchio e storico impianto chiude i battenti è un po’ come se una parte di noi ci lasciasse.
Cornaredo si avvia sul viale del tramonto. Ma non molla. Le norme del calcio sono suonate come un verdetto: «O ti metti nelle mani del chirurgo, oppure sei fritto». E il vegliardo – che poi oggi a 72 anni si è ancora dei giovanotti – si è affidato a un’équipe medica che lo mantiene in vita in attesa che, all’inizio del 2026, si profili, bello, si spera, aitante, un po’ supponente nella sua tracotanza giovanile, il nuovo stadio luganese che farà parte del Polo Sportivo e degli Eventi.
Il calcio d’addio, lo scorso 25 maggio, è stato emozionante, con un chiaro 2 a 0 rifilato allo Young Boys, la squadra-faro del nostro calcio dell’ultimo quinquennio. I ragazzi di Mattia Croci-Torti ci tenevano a fare bella figura. Tanto più che l’avversario se lo sarebbero ritrovato di fronte una decina di giorni dopo, nella loro tana, per la finalissima di Coppa Svizzera. Sappiamo come è andata. I gialloneri non si sono lasciati impressionare. È stata comunque una gioia chiudere un’era con un successo di prestigio.
Non fu prestigiosa, ma fragorosa e dilagante, la prima vittoria, ottenuta al debutto nel 1951. I bianconeri sconfissero il Chiasso in amichevole per 7 a 0. Ci fu uno zampino rossoblù anche in quella che viene tuttora considerata come la vera sfida inaugurale del nuovo stadio luganese. Era il 25 novembre dello stesso anno. Davanti a 32’500 spettatori si affrontavano le Nazionali di Svizzera e Italia. Avete letto bene: 32’500. Non è un errore di stampa. Non c’era la tribuna Monte Brè, smantellata poche settimane fa. Non c’erano ancora gli spalti ordinati che negli anni Sessanta hanno permesso a Cornaredo di ospitare dei derby contro il Bellinzona con quasi 20mila spettatori. C’era una vera e propria collina dove gli spettatori erano stipati, pigiatissimi come pulcini d’allevamento in batteria. Il termine hooligan non era ancora stato sdoganato. Non c’erano i tifosi. C’erano dei puri e semplici appassionati, rossocrociati e azzurri, spesso gli uni accanto agli altri, pronti a lanciare in aria il cappello in segno di giubilo al termine di ogni azione degna di nota. Uno spettacolo nello spettacolo. Col passare del tempo, le feste a Cornaredo divennero sempre meno sontuose. Con un numero sempre più ridotto di invitati. Complici, da un lato le norme relative all’occupazione degli stadi, dettate dalla necessità di arginare alcune derive del tifo più esasperato, dall’altro lo stemperarsi di una passione che aveva dovuto pagare un pedaggio molto pesante all’altro tempio, quello dell’hockey, distante neppure 200 metri. Per un certo periodo Cornaredo era diventato un luogo per pochi romantici innamorati dei colori bianconeri. Quelli che, nonostante le devastanti vicissitudini societarie, non avevano mai smesso di amare la squadra.
In questi ultimi anni lo stadio e il club luganese stavano ritrovando tutta la loro dignità. Due ottimi piazzamenti in campionato, due finali di Coppa Svizzera disputate, di cui una vinta. Una semifinale con il Lucerna, nel maggio del 2022, in cui le vibrazioni della curva e delle tribune erano tornate a farsi sentire. Un allenatore, Mattia Croci-Torti, dalle qualità tecniche indubbie, dotato anche di un carisma e di un’energia dilaganti e contagiosi. Questo mood vincente verrà traghettato in quello che orami molti chiamano già Cornaredino. La sfida di pochi giorni fa contro il San Gallo ha segnato l’inizio di una nuova era. Provvisoria ed effimera, anche se lo stadio si atteggia a ultra settantenne gagliardo che spera di aver trovato l’elisir di lunga vita.
Sarà invece costretto, il nostro buon vecchio stadio, a barcamenarsi, con una protesi di qua, una vite e un chiodo di là. Ma con ancora i profumi e le atmosfere del vecchio Cornaredo che non vuole cedere il passo. Soprattutto con il desiderio e l’ambizione di perpetuare la permanenza del Lugano fra le grandi della Super League. Questione di un paio di anni, poi, addio. Il passo sarà breve. Il cimitero è lì accanto. Ma gli stadi dismessi hanno un loro camposanto. Un luogo sacro, sconosciuto agli umani, in cui si raccontano storie a vicenda.