Il Labour inglese è uscito a pezzi dalle elezioni del 12 dicembre e la mappa elettorale del Paese è cambiata in modo straordinario. Non c’è più il cosiddetto «muro rosso» dei laburisti, una cintura di seggi storicamente laburisti nel centro del Regno che ora – perché il sistema elettorale britannico non perdona: il vincitore prende tutto – è colorato di blu conservatore. Jeremy Corbyn, leader del Labour che ha perso due elezioni di fila (in tutto sono quattro, dal 2010 a oggi), ha detto che la Brexit ha condizionato ogni cosa, e che la sconfitta è stata determinata da una generale propensione dell’elettorato inglese a dare un seguito al referendum del 2016.
Gli inglesi vogliono la Brexit, è vero, ma è anche vero che l’offerta laburista ambigua sul divorzio dall’Ue ha condizionato enormemente la percezione dell’affidabilità del partito: Corbyn aveva scommesso su questa ambiguità, pensava che fosse il modo migliore per vincere il mandato per altre ragioni – economiche e sociali – e poi gestire il processo Brexit con il Parlamento e gli europei.
Anche se molti gli dicevano che un partito d’opposizione in un Paese che da tre anni si contorce sull’allontanamento dall’Europa deve necessariamente avere una posizione chiara, Corbyn ha insistito con la vaghezza, preferendo invece la chiarezza brutale di una rivoluzione del «modello di business» del Regno intero.
Oggi il verdetto è chiaro, ma se si vanno a sentire le riflessioni dei parlamentari laburisti che hanno perso il loro seggio – Corbyn non si è nemmeno scusato con loro: l’ex premier Gordon Brown aveva scritto una lettera personale a ognuno degli sconfitti nel 2010 – si capisce che anche durante la campagna elettorale i segnali erano chiari: nei porta a porta che scandiscono le campagne elettorali inglesi, un elettore diceva che non avrebbe votato Corbyn per la Brexit, un altro per l’antisemitismo, un altro perché le nazionalizzazioni costano e spaccano i bilanci pubblici, un altro perché non si fidava. Un laburista sconfitto ha detto al «Guardian»: arrivavi in fondo alla strada dopo aver bussato a tutte le porte e lo sapevi che avresti perso.
Corbyn non ha mostrato di aver preso consapevolezza dei propri errori, non si è dimesso nonostante il risultato disastroso che consegna al premier conservatore Boris Johnson una supermaggioranza inossidabile, e ha chiesto un «periodo di riflessione» per definire il futuro del partito. Ma su cosa ci sia da riflettere c’è molta confusione, e per ora Corbyn – e i corbyniani che non vivono soltanto nel Regno Unito, in Europa è pieno – pensa a trovare le cause della sconfitta altrove. In particolare nel cosiddetto tradimento riformista del New Labour che, secondo Corbyn, è la causa principale dello scivolamento della classe lavoratrice verso altri partiti.
L’attuale leader del Labour si riferisce alla stagione blairiana come se non fosse stata una stagione di successo e soprattutto come se fosse finita l’altroieri quando è un decennio ormai, se non di più, che si costruisce il post Blair. E proprio l’ex premier in un discorso spietato dopo le elezioni ha rivendicato il primato elettorale della sua offerta politica liberale e ha chiesto al partito non soltanto di rinunciare a Corbyn in fretta ma di rinunciare soprattutto al corbynismo.
Non è detto che accada. All’inizio del 2020 si definiranno le regole e i tempi per la successione a Corbyn, che in questi anni ha modellato il partito a sua immagine e somiglianza facendolo dipendere dall’attivismo radicale di Momentum e dai sindacati.
È probabile che il prossimo leader sia espressione del dominio corbyniano: tra i candidati spicca Rebecca Long-Bailey, beniamina dei sindacati (in particolare di Unison) che ha ricevuto l’endorsement dall’amica e compagna di appartamento Angela Rayner, ministro ombra per l’Istruzione molto temuta dai Tory perché ha idee forti e retorica solida. Il duo oltre a essere unito ha il sostegno dei corbyniani ed è tutto femminile, cosa che come si sa si porta molto attualmente. Molti pensano che si candiderà anche Jess Phillips, l’unica tra i deputati laburisti ad avere il carisma del leader, ma non si sa se sia una speranza o una cosa vera.
Keir Starmer, il più esperto sulla Brexit nel Labour e molto applaudito all’ultima conferenza potrebbe essere una scelta di compromesso, in linea con la riflessione: vicino a Corbyn ma molto meno radicale di lui e soprattutto dialogante con i moderati, Starmer è il traghettatore ideale essendo un abile negoziatore. Una figura così serve, perché per quanto si voglia riflettere ora dentro al Labour è soltanto guerra.