Convivere con il rischio si può, anzi si deve

/ 15.11.2021
di Luciana Caglio

Una coincidenza fortuita, ma indicativa, ha affiancato due fatti di cronaca recenti. Il 21 ottobre scorso Norbert Bolz, professore di scienze mediatiche all’università di Berlino, invitato dalla NZZ, affrontava il tema del rischio da un versante insolito: come una possibile, anzi necessaria presenza, nella nostra quotidianità, un imprevisto da accettare. Mentre tradizionalmente, da noi, rappresenta uno spauracchio da cui proteggersi preventivamente.

Non a caso, proprio in Svizzera, stipulare con un’adeguata polizza assicurativa la copertura contro ogni imprevisto, è diventato uno sport nazionale, su cui si sprecano persino le ironie. Per il turista elvetico, un classico del repertorio è il pericolo pioggia che potrebbe guastargli le vacanze e relativi passatempi, previsti e già pagati contrattualmente. Tutto ciò per dire che la paura del rischio denuncia l’incapacità di sfruttare in modo positivo un fuori programma, indizio di fantasia bloccata. Secondo Bolz, occorre, più che mai, sviluppare una «cultura del rischio», in grado di fare di necessità virtù. Lo esige l’epoca che sta moltiplicando strumenti tecnologici e mezzi di comunicazione e di trasporto, persino voli spaziali prodigiosi ma incomprensibili al cittadino comune, e quindi fantasmi sinonimo di rischi.

«Un volo cieco nel futuro»: così s’intitola la relazione di Bolz, apparsa poi sulle pagine del quotidiano zurighese, dove allusione inevitabile, si parla della paura provocata da una pandemia, addirittura del vaccino, pericolo inverosimile nell’era delle garanzie, affidate a una polizza di cassa malati. Tuttavia Bolz, al pari di altri studiosi, quali Gerd Gigerenzer, direttore del prestigioso Max Planck Institut berlinese, illustra gli obiettivi della «Risikokompetenz», una branca specifica in fieri, rivolta alla conoscenza del «rischio compagno di vita».

Ora, mentre un pubblico, evidentemente ristretto, ascoltava o leggeva (non senza fatica, come nel mio caso) quest’invito alla riflessione sul rischio nuovo impegno culturale, un pubblico di dimensioni mondiali, vip politici compresi (basta citare il nome di Obama), ha partecipato, di persona o seguito virtualmente, il Climate Summit COP 26 di Glasgow dedicato ai pericoli che incombono sul futuro prossimo venturo del nostro pianeta. Proposti e illustrati per forza di cose, in ben altri termini, sia all’interno della sede congressuale sia all’esterno, sulle piazze: obiettivo sollecitare l’intervento dei responsabili, in alto loco, di guai ambientali che insidiano il futuro del mondo di cui siamo ospiti e non padroni. Tutto ciò, ricorrendo anche a parole forti e comportamenti vivaci e spettacolari, sfruttando l’effetto Greta e lo scontro generazionale. Da un lato, ragazzi che si mobilitano per il verde, bene comune, dall’altro adulti, tipo industriali e banchieri rapaci che difendono le loro tasche. Al di là delle rispettive forzature autocelebrative, sta di fatto che il rischio è reale. Appartiene, paradossalmente, ai progressi e ai vantaggi prodotti dall’era industriale e oggi digitale.

«Siamo usciti dall’era comfort»: l’espressione, anzi un bello slogan, spetta a Charlie Chaplin, che personalmente ha vissuto quest’esperienza. Mentre prima, da ragazzo della periferia inglese aveva tutto a portata di mano e sotto controllo, dopo compiendo la scalata sociale verso la ricchezza e la notorietà, ha provato smarrimento, alle prese con rischi frastornanti. Ora, debite proporzioni a parte, l’era del comfort è una conquista per molti, se non per tutti. Le mete esotiche, le connessioni immediate con l’universo delle informazioni, gli acquisti, l’apprendimento, l’istruzione per via elettronica, e via dicendo, hanno, come giustamente si sente dire, allargato il nostro orizzonte.

Non è più il cortile sotto casa, la piazza del paese, il bar dell’angolo, il quotidiano di provincia. È uno spazio incontrollabile: persino per Charlot, figurarsi per noi. Riuscire a convivere con i rischi, che ciò comporta, non sarà uno scherzo.