Controlliamo la tecnologia

/ 23.03.2020
di Aldo Grasso

Stiamo vivendo la più grande rivoluzione antropologica che l’umanità abbia mai conosciuto e non ce ne accorgiamo. O meglio, sì qualcosa intuiamo perché lo smartphone ti fa sentire al centro del mondo, perché siamo affascinati dalle infinite possibilità offerte da internet, dai motori di ricerca, perché siamo sui social e possiamo dire finalmente la nostra, perché leggiamo dei progressi raggiunti dalle biotecnologie che modificano e allungano la vita, perché l’intelligenza artificiale viene in soccorso alla nostra, che non sempre si è dimostrata all’altezza.

Ma, come ha scritto Massimo Gaggi nel libro Homo premium. Come la tecnologia ci divide (Laterza), «nelle rivoluzioni precedenti le braccia dell’agricoltura erano passate all’industria e quando anche qui erano arrivati i robot, quelle delle fabbriche erano emigrate verso lavori di maggior contenuto cognitivo. Ma ora l’intelligenza artificiale comincia a sostituire anche molte mansioni intellettuali degli addetti ai servizi e di varie categorie di professionisti: analisti, medici, commercialisti, agenti di viaggio, giornalisti, perfino avvocati».

La rivoluzione di internet, che alcuni studiosi americani considerano più decisiva dello sbarco sulla luna, comincia dunque a creare alcuni problemi non solo tecnologici. Il web è diventato a tutti gli effetti un ambiente in cui viviamo e respiriamo. I nuovi media sono ubiqui, costituiscono la quotidianità, si offrono come dimensioni sociali, culturali, politiche ed economiche del mondo contemporaneo e in quanto tali contribuiscono alla nostra capacità di dar senso al mondo, di costruire e condividere i suoi significati. Non sono soltanto uno specchio della realtà esterna; sono realtà essi stessi.

Un guru tecnologico come Jaron Lanier (musicista e compositore professionista, ha accompagnato al piano John Cage e Laurie Anderson e ha collaborato con Philip Glass, ma è anche uno dei creatori della realtà virtuale) sostiene che davanti all’occhio impassibile dell’algoritmo di Google, non c’è differenza tra il «Wall Street Journal» e i siti spazzatura, e questo ha generato una crisi enorme nell’industria dell’informazione. «Mi preoccupa moltissimo l’idea che internet, che avrebbe dovuto essere un’utopia per l’informazione, stia in realtà riducendo la qualità dell’informazione a cui le persone hanno accesso, e questa è una tragedia», dice Lanier.

Altri, invece, sono più ottimisti, pensano che, certo, vivremo in un mondo dominato dall’intelligenza artificiale delle macchine, ma non per questo diventeremo schiavi dei robot. Qualcuno, lo sappiamo bene, è arrivato a vedere nella macchina algoritmica un’incarnazione di democrazia diretta, anche se per ora l’idea assomiglia pressappoco a un’utopia, e di quelle radiose. Ci sono infatti crescenti indizi che l’occidente stia arrancando verso il dominio dell’algoritmo, un Mondo Nuovo in cui vasti campi della vita umana saranno governati dal codice digitale sia invisibile sia incomprensibile per gli esseri umani, con un significativo potere politico posto al di là della resistenza individuale e legale. Le democrazie liberali stanno già avviando questa rivoluzione silenziosa e tecnologicamente attiva, anche se minano le loro stesse fondamenta sociali?

Sta di fatto che l’algoritmo dei motori di ricerca influenza le nostre ricerche, l’algotrading muove ogni ora milioni di dollari e suggerisce le scelte che dobbiamo fare nella vita quotidiana. Un nuovo potere invisibile ci domina, si chiama algocracy? Il termine è apparso nel 2006 in Virtual Migration, un libro di A. Aneesh che descrive sistemi di governance informatizzati dove è il codice che determina, organizza e vincola le interazioni umane con quei sistemi. La parola è formata da algo, abbreviazione informale di algorithm, e dal secondo elemento – cracy, crazia, cioè potere. La traduzione in italiano, algocrazia, crea qualche problema (etimologicamente significherebbe «governo del dolore», meglio «algoritmocrazia»), ma lasciamo alla Crusca, o chi per lei, la soluzione: i dolori sono altri.

Da un po’ di tempo negli Stati Uniti, tra le questioni più urgenti per chi si occupa di intelligenza artificiale c’è quella di insegnare l’etica alle macchine affinché gli algoritmi non prendano decisioni discriminatorie o moralmente riprovevoli. La tecnologia non è mai neutrale. Il suo valore dipende in larga parte dall’uso che se ne fa e per questo sembra indispensabile, mai come ora, alimentare un dibattito sull’etica della tecnologia, l’etica del digitale. Fine della libera informazione? Dominio degli algoritmi? A quando il primo governo Black Mirror? Già Goethe, con la terribile favola dell’Apprendista stregone, ci aveva insegnato che la tecnica va tenuta sotto controllo.