Dopo i mesi concitati della caduta di Giuseppe Conte e dell’avvento di Mario Draghi, la politica italiana è entrata all’apparenza in una fase relativamente tranquilla, in cui si parla soprattutto di pandemia, vaccini, chiusure e riaperture. In realtà nei partiti, o in quel che ne resta, sta accadendo di tutto.
Le due principali forze politiche che avevano sostenuto il governo Conte, i Cinque Stelle e il Partito democratico, hanno entrambe cambiato leader. I grillini hanno assunto come capo appunto «Giuseppi» Conte, come lo chiamava Trump. Più sorprendente è stato il cambio della guardia al vertice del Pd. Le dimissioni di Nicola Zingaretti sono giunte inattese. Già Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia-Romagna, tramava per prenderne il posto, con l’appoggio esterno di Matteo Renzi. Così i notabili del Pd, con in testa Dario Franceschini, hanno giocato d’anticipo, richiamando dall’esilio parigino l’ex presidente del Consiglio Enrico Letta.
Marco Follini, l’autore dei migliori libri degli ultimi anni sulla politica italiana, in Enrico Letta vede un misto di Beniamino Andreatta (il suo maestro), Giulio Andreotti (il simbolo della Democrazia cristiana, il partito-Stato della Prima Repubblica) e Gianni Letta, lo zio, da sempre «eminenza azzurrina» di Silvio Berlusconi. Una metafora brillante, quella di Follini; ma un po’ ingenerosa.
La Dc era il partito conservatore italiano. In tutte le elezioni politiche cui ha partecipato, dal 1948 al 1992, è sempre stato il primo partito. Il secondo, il Pci, non poteva governare neppure se l’avesse superato: perché in Italia nel 1943 erano arrivati gli americani, i quali non avrebbero mai consentito che un Paese liberato con il loro sangue e i loro dollari finisse nell’orbita dell’Unione Sovietica. Berlinguer lo sapeva benissimo. Essendo condannata a governare, la Dc era diventata un partito-Stato in cui c’era un po’ di tutto, da ex fascisti a sindacalisti della Fim-Cisl molto più radicali dei comunisti della Cgil. In mezzo c’era una maggioranza dorotea, quindi moderata, e una solida corrente di sinistra. Quando il sistema è crollato, la sinistra Dc si unì a quel che restava del Pci-Pds-Ds, per creare un partito riformista che non fosse unito solo dall’antiberlusconismo. Finora la segreteria è andata come un pendolo da esponenti formatisi nel Pci – Veltroni, Bersani, Zingaretti – ad altri formatisi nella Dc: Franceschini, Renzi, adesso Enrico Letta. Che non è un conservatore; è un centrista con una forte vocazione al governo. Se fosse stato conservatore – come lo era Andreotti – , con zio Gianni in famiglia avrebbe potuto avere tutto lo spazio che voleva in Forza Italia; ma a suo tempo ha fatto una scelta diversa, e non l’ha mai cambiata. In questi sette anni non si è lasciato andare al risentimento, ma essere considerato il nemico di Renzi è diventato paradossalmente per lui un vantaggio dentro quello stesso Pd che l’aveva sloggiato da Palazzo Chigi, e ora l’ha richiamato.
Nel centrodestra, il duello tra Giorgia Meloni – rimasta all’opposizione – e Matteo Salvini – entrato nella maggioranza di governo – si sta facendo sempre più aspro. Il leader della Lega aveva, e avrebbe ancora, un’occasione d’oro per occupare una posizione non centrista ma centrale nello schieramento politico italiano: sostenendo con convinzione l’esecutivo Draghi, abbracciando un’idea di Europa diversa da quella attuale e proiettata nel futuro, isolando all’estrema destra la Meloni; in una parola, entrando nel partito popolare europeo, che bene o male governa l’Europa da decenni. Invece Salvini che fa? Annuncia che si vuole unire ai Conservatori europei. Cioè va a chiudersi nel recinto ungherese e polacco, alleandosi con leader illiberali, xenofobi, irrispettosi delle minoranze, che dal Ppe sono appena usciti o non sono mai entrati.
Non capisco perché Salvini lo faccia. Richiamo della foresta? Paura di perdere voti a destra? La destra vincerà comunque le prossime elezioni, se non altro per la legge dell’alternanza (a parte l’anno del governo gialloverde, è dal novembre 2011 che la destra è fuori da Palazzo Chigi). Ma, come ha teorizzato per primo Giancarlo Giorgetti – ora ministro per le Attività Produttive nel governo Draghi – , la destra difficilmente potrebbe restare al governo su una linea antieuropea e antitedesca. Perché un Paese indebitato fino al collo come l’Italia, che da trent’anni a questa parte cresce poco e male, dell’Europa ha fatalmente bisogno.
Quanto a Mario Draghi, vive le sue prime difficoltà. Le vaccinazioni vanno a rilento. Il Recovery Plan ancora non è noto nei dettagli. L’impressione è che debba organizzare riaperture, nel commercio, nella ristorazione, nel turismo: caute, prudenti, ma pur sempre riaperture. Non si può campare per anni di ristori; che oltretutto aggravano il tremendo debito pubblico.